tutto intorno muore

Tutto intorno muore.
E di notte lo fa più in fretta.
Cesenatico, estate 1983, le foto dei miei genitori giovani e felici. Poi ricordo la caraffa sul camino che ci ha visti a tavola per trent’anni e che un giorno qualunque è caduta e s’è rotta. Liquirizia, il mio storico gatto nero, morto a 16 anni sotto la macchina di uno che non aveva nessuna colpa. Non ho foto di Liquirizia. Un giorno mi venne in mente di fargliene una mentre giocava con una biglia dei ciclisti, ma non avevo voglia di salire a prendere la macchina fotografica e così rimandai. C’è una cartolina di Alan Ford caduta dietro questa scrivania circa trent’anni fa. Quando mi capiterà di smontarla, se mai capiterà, la rivedrò. E’ a poche decine di centimetri dai miei piedi e insieme lontana galassie. Un vecchio a Bari è morto in solitudine, all’improvviso, nella sua topaia dopo una vita di merda. Sono l’ultimo che l’ha visto vivo, Nicola. Quella porta che ho chiuso, si è riaperta solo quattro giorni dopo, quando l’hanno ritrovato. Mentre viveva le sue ultime ore d’agonia, chissà cosa stavo facendo due piani sotto. Le cicatrici sul mio braccio saranno le stesse, identiche, che avrò sul mio letto di morte. Ci sono film che ho visto e che non mi troverò mai più a rivedere e non so quali sono. Ci sono piccole insospettabili cose che non mi troverò più a fare e che, l’ultima volta che le ho fatte, non c’era un led rosso che s’illuminava per avvertirmi che quella sarebbe stata l’ultima. Mi manca Liquirizia, un gatto che sposava un genio selvaggio ad un senso toccante della responsabilità. Ho sempre pensato che se avesse potuto avrebbe aiutato mia nonna quando andava a cogliere l’erba per i conigli o mio babbo a compilare la dichiarazione dei redditi. Mentre Nicola moriva su una sedia, spaventato e solo, il colibrì del suo orologio a cucù continuava ad uscire e cantare. Forse si sente ancora, per quelle scale.
E poi ci sono diapositive non replicabili di momenti che furono d’una bellezza lacerante e tenera. Purtroppo ne ho a miliardi. Ricordi dolcissimi in grado di rovinare vite. Ti accarezzano la testa mentre tributi loro le lacrime più calde e intanto t’inchiodano i jeans al suolo. Come una bàlia pietosa che ti tiene sedato nel viaggio del declino. “Stai tranquillo amore, andrà tutto bene”. Così che non ti cada lo sguardo sulla decomposizione oltre i finestrini.
Chissà cosa cambierebbe, se fossi l’opposto di quello che sono oggi. Non sono mai stato uno di quelli che dicono “rifarei tutto”. Tornassi indietro imboccherei la destra dove ho preso la sinistra e viceversa, a prescindere. Non è tanto il rimpianto quanto la curiosità. E forse mi ritroverei comunque qui dove sono, al gelo sotto le coperte nella casa al mare di un amico, col rumore del solito topo che da tanto tempo ha preso casa nel cassone dell’avvolgibile. Che si muove tutta la notte e che stanotte si muove poco e si muove sempre meno. Forse per il veleno che il mio amico ha messo lì oggi pomeriggio. Mentre sono qui che snocciolo immagini retoriche digitando su un cellulare, sangue si secca nelle vene d’un inutile ratto, che smette di esistere per non tornare a esistere mai più. Ecco, l’ho sentito di nuovo.
In momenti d’imbarazzante melensaggine penso che non siamo eterni, che bisognerebbe solo stringerci come fuggiaschi in una botola mentre suole di stivali nazisti passano a pochi centimetri dalle nostre facce impaurite. Invece va bene sprecare il tempo a leccare il culo alle rockstar e a testare quanto potere abbiamo su chi è dalla nostra parte, quanto possiamo tirare la corda, mettere tempo in mezzo, sempre e comunque, collezionare appuntamenti mancati, non esserci quando c’è bisogno di noi, dire vai invece che resta, sempre e comunque. L’orgoglio, avete presente? La medaglietta di latta che tirate fuori voi falliti che non avete mai avuto una dignità vostra.
Che notte di merda, in perfetta scala a rappresentare questa esistenza per come ce l’hanno fornita. In notti così non serve a niente nemmeno l’amore, che è solo quello dei quattordici anni, quando pensi che ci saranno solo campi verdi e sterminati su cui correre e domeniche pomeriggio passate a scoprire nuovi gusti di gelato. E se mi dicevano che l’aldilá non esiste, io avrei pensato che da lì a che ero vecchio si sarebbero organizzati per costruirlo da qua. Non avrebbero più permesso che si sparisse così. Mi sarei aggrappato impaurito alla manica di mio babbo e gli avrei chiesto se la Banca Popolare Dell’Etruria avrebbe potuto fare qualcosa. D’altronde la Banca a Natale regalava cinquantamila lire ai figli degli impiegati. Io li spendevo da Bobini Giocattoli. Ricordo il mio primo gioco da tavolo: Doctor Doctor.
Ora dormo, con l’orecchio vigile all’arrivo del corriere che fra qualche ora mi porterà un nuovo gioco da tavolo. Diecimila giorni da quella scatola bianca di Doctor Doctor, dalla foto dei miei alla pensione Garisenda, da Liquirizia e la sua pallina di Saronni. Che bella la vita. Domani sarà tutto pateticamente risolto e imbusterò le carte una ad una, con le bustine ad alta grammatura che costano il doppio, così che non si sciupino, che restino come sono. E pure io e tutto quello che ho intorno, con loro.