love me tinder

love me tinder

C’è stato un periodo in cui non riuscivo a girare per Londra senza imbattermi in persone che facevano scorrere il display del cellulare da destra a sinistra. Nei pub, nei bagni pubblici, al cinema prima del film, al cinema durante il film. Quando ho realizzato che non era per via di un contest sulla destrezza del pollice opponibile ma della galleria fotografica di Tinder – l’app che presenta potenziali partner da accettare o scartare in base a una foto, da cui il movimento destra-sinistra – ho iniziato a condurre dei comizi d’amore digitale. Perché lo usi? Cosa comporta? Qual è la percentuale di successo? Hai mai incontrato qualcuno di importante? 

È un’indagine informale basata su un campionario casuale – amici in gran parte, ma anche sconosciuti con cui ho raggiunto il livello di intimità sufficiente per occupare lo stesso ascensore. È facile parlare di Tinder perché a chi lo usa piace parlarne. Anche se come tutte le applicazioni popolari diventa sempre più trasparente – non mi soffermo più sulle sue ricadute sulla gestualità urbana, o sulla sua incidenza nelle conversazioni in pubblico – non smetto di interessarmene. Non perché sia un’innovazione che rompe un ordine sentimentale per sostituirlo con uno più cinico o meccanico: Tinder non porta del nuovo, velocizza solo dei processi in atto. Ma perché rende evidente che il modo in cui ci innamoriamo o facciamo sesso non è svincolato da pressioni economiche o sociali, e contiene delle risposte che vanno a disinnescare la sua fama di app sessista e sterile. 


Nessuna mitologia da campus
 
Lanciata nell’autunno del 2012, Tinder parte da un’intuizione semplice: perché non mettere la geolocalizzazione al servizio di un interesse primario, l’accoppiamento, invece di relegarla al baratro dei check-in in aeroporto o pizzeria? Che tizio sia appena arrivato al gate ci interessa poco, che sia disposto a un rendez-vous nel giro di dieci chilometri potrebbe interessarci molto. Attraverso Facebook, ci dice cosa possiamo rimediare nelle vicinanze e pur partendo dagli interessi in comune, in realtà affida la scelta del partner a una foto profilo. I candidati comunicano tra loro solo se si sono scelti a vicenda: è la componente più criticata, che semplifica o brutalizza meccanismi di selezione artificiale portati in dote dalle scuole medie, non certo dalla tecnologia.

Tinder è un’estensione delle conversazioni in corridoio in cui ogni gusto musicale o taglio di capelli sbagliato era un motivo valido per contemplare l’ipotesi di una morte lenta, e un aggiornamento del book fotografico nelle agenzie matrimoniali, ma senza l’iconografia romantica da romanzo Harmony: il logo dell’app non è un cuore, ma una fiamma. 

L’applicazione non ha una mitologia complessa alle spalle:
 niente storie di appropriazione indebita, niente amicizie tradite, niente malinconia del vincitore. Pur essendo stata testata nelle università, non è emersa da quel contesto e non è un riflesso incondizionato della frat culture o dello spontaneismo sessuale dei campus americani. Mentre Facebook, che invece è nato così, è diventato un servizio di controllo o intrattenimento stratificato in cui la componente sessuale è tutto sommato marginale, Tinder ha tenuto fede alle promesse originarie del social di Zuckerberg: come faccio a portarmi a letto qualcuno col minor sforzo possibile? Alla domanda «Tinder non rischia di uccidere il corteggiamento?» (stando alle medie vantate dall’azienda, il lasso di tempo che intercorre tra la prima chat e l’atto sessuale è molto breve) pare che i fondatori prima abbiano riso, e poi abbiano dichiarato che il «corteggiamento non esiste più». Ma checché ne dicano Sean Rad e Justin Mateen – due dei cinque inventori di Tinder – le cose non stanno proprio così.
 

 

Una denuncia per sexual harassment
 
I due non sono famosi per l’eleganza e il politically correct: postano immagini discutibili su Instagram in cui le donne fanno da arredamento in senso metaforico e non, e adesso si ritrovano al centro di una controversia legale perché Whitney Wolfe, che ha fondato Tinder con loro, lo scorso 30 giugno li ha denunciati per molestie sessuali. È stata lei a trovare il nome per l’applicazione e da una posizione paritaria è stata relegata a vice-direttore del marketing perché la sua presenza tra i fondatori ufficiali avrebbe depotenziato l’immagine al testosterone dell’azienda (oltre a essere insultata in vari modi da chiarire in sede legale). 

Mateen e Rad vogliono vendere Tinder come una app che fa fare sesso ed è molto probabile che il loro target
, l’unico a cui sono interessati, sia rappresentato solo dal maschio in fascia post-puberale. Ma la popolarità di Tinder e gli usi che ne vengono fatti rendono l’applicazione distante dall’idea di chi l’ha fondata: il trattamento riservato a Whitney Wolfe e il machismo dell’azienda ci dicono qualcosa sull’idea che molte start-up e la Silicon Valley hanno dei rapporti uomo-donna in sede lavorativa, ma non dicono molto su Tinder in quanto tecnologia in sé. Che, al contrario, non mette paletti di genere: a differenza di Grindr e Blendr, applicazioni più vecchie ma dal funzionamento simile riservate a un pubblico omosessuale, Tinder non preclude i vari abbinamenti possibili. E per ogni ragazzo che sfoglia un catalogo di donne appetibili, c’è una ragazza che nello stesso momento sta facendo altrettanto.
 
 
Gianni il libro del deboscio

Tinder slut e tinder loser

Che su urban dictionary ci sia la voce "tinder slut" per designare ragazze che hanno un comportamento disinvolto sul mezzo, ci dice qualcosa sul contesto in cui Tinder cade (l’assenza di un corrispettivo lessicale maschile è annosa), ma la rete è piena di Tumblr in cui si prendono in giro i "tinder loser" che invece di andare al sodo chiedono «Se tu potessi essere una Tartaruga Ninja, quale vorresti essere?»: ai fini della denigrazione, le due etichette non sono molto diverse. 

La maggior parte delle persone che conosco che usa Tinder è donna.
 E la maggior parte delle persone che conosco che usa Tinder lo fa anche per ragioni economiche. In una città come Londra in cui la possibilità di incontrare qualcuno, soprattutto dopo i trent’anni e quando si è inseriti in un contesto lavorativo-familiare che non offre nuovi spunti, è affidata al canale socialmente organizzato dell’alcol (potrai anche ordinare la birra più economica sul mercato, ma ubriacarti al bancone ogni fine settimana per rimorchiare va comunque a incidere sul bilancio mensile) o all’iscrizione a siti di appuntamenti più nobili (il pacchetto completo al dating site del Guardian costa più di cinquanta sterline al mese, non a caso viene utilizzato prevalentemente dalla classe media di sinistra sui quarant’anni mentre per gli altri è quasi inaccessibile), Tinder rappresenta un’alternativa concreta ed economica (ok, a patto di avere uno smartphone). 

L’applicazione viene considerata una delle peggiori efflorescenze del capitalismo sentimentale. È vero che con Tinder si fa sesso, ma è anche vero che molte interazioni si polverizzano nel giro di poco tempo, che alla realtà del corpo qualcuno preferisce l’ambiguità dello scritto e che da un incontro casuale possono scaturire conseguenze brevi o durature, ma questo vale anche altrove. Altrimenti è come credere che qualsiasi relazione nata all’oratorio condurrà al matrimonio, e che prima o poi qualsiasi rapporto nato attraverso internet dovrà scontare la fragilità del suo peccato digitale. Le aspettative che abbiamo sull’amore e sul sesso si storicizzano: Tinder è una delle forme in cui il corteggiamento esiste oggi, ma non è l’unica, non è apocalittica e non è per forza maschilista o squallida. Nessuno usa Tinder per innamorarsi. Ma forse dovremmo anche smettere di dire che la gente lo usa per non innamorarsi.

Claudia Durastanti ha scritto due romanzi entrambi per Marsilio, Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra e A Chloe, per le ragioni sbagliate.
 
Tratto da Pagina 99