la verità sul gig journalism

ome si vive con un reddito da rider, cioè portando le pizze a domicilio? Piuttosto male, basta fare due conti. La remunerazione fornita da piattaforme come Foodora e Deliveroo varia tra i cinque e i nove euro all’ora, per un totale teorico di circa 1000 euro al mese. Molto teorico: è raro che un rider lavori quaranta ore a settimana, primo perché è massacrante e secondo perché la domanda di pizze non è uniforme a tutte le ore del giorno. Fare una media non è molto utile, visto che la piattaforma permette a ogni rider di modulare il suo impegno su misura per lasciar tempo allo studio, al riposo o ad altre fonti di reddito; ma appare evidente che gran parte della forza-lavoro impiegata in queste mansioni ne trae un reddito piuttosto al di sotto della soglia di autosussistenza. Nel caso del riding la piattaforma può fare dei profitti sulla somma di tante piccole prestazioni, e domiciliandosi all’estero riesce a eludere l’imposizione fiscale nei paesi in cui opera. Non a caso si parla di gig economy, cioè «economia dei lavoretti».

Per quanto siano sottopagati i rider, c’è un’altra categoria in una situazione simile sebbene di estrazione diversa: sono i giovani giornalisti. Non intendo i redattori pagati 5 euro a post, perché qui parlare di giornalismo appare fuori luogo, e nemmeno i collaboratori di Salvatore Aranzulla che ne prendono 25 per alimentare uno dei siti più redditizi del paese. Parlo di una cosa che conosco direttamente, ovvero quel giornalismo da terza pagina fiorito negli ultimi anni su siti come Vice, Studio, Esquire, Prismo, Forbes o The Vision, e sempre esistito sui quotidiani nazionali e sulle riviste culturali. Il nuovo ecosistema dei magazine online è stato capace, in certi casi virtuosi, di proporre un elevato livello di scrittura e di approfondimento. Ma a che prezzo? Se la remunerazione oraria di un articolo è difficile da quantificare — dipende dalla velocità di scrittura, ma anche dal livello di esigenza — per un articolo longform pagato tra i 40 e i 100 euro scritto in cinque/dieci ore, con altre dieci ore di ricerca alle spalle, spesso non siamo lontani dalla remunerazione di un rider.

 

I compilatori più rapidi possono riuscire ad accumulare un alto numero di collaborazioni mediamente pagate ma si condannano a ritmi infernali, mentre le poche firme che hanno conquistato un maggior potere negoziale possono occasionalmente fatturare sopra i 150 euro ma hanno l’onere di non inflazionare né disseminare la loro produzione. Come per i rider, la struttura della domanda fa in modo che difficilmente una firma con i «giri giusti» possa guadagnare più di ottocento-mille euro al mese — una somma che può sembrarvi adeguata solo se vivete ancora a casa con i genitori e prevedete di restarci ancora a lungo. Siti come Huffington Post o Il Fatto, da parte loro, nemmeno si pongono il problema di remunerare i blogger, che si suppone siano riconoscenti dello spazio di espressione che viene dato loro.

 

Ecco perché il giornalismo è spesso un lavoretto. Ovvero un’attività riservata soltanto a chi se la può permettere perché ha altre fonti di reddito: famiglia, lavoro, piccoli furti o una carriera collaterale che alimenta ed è alimentata dall’attività pubblicistica. D’altra parte non cessano di fiorire nuovi siti che macinano contenuti, clic ed entrate pubblicitarie: anche questa è una forma di gig economy, con conseguenze sulla qualità dell’informazione.

 

Semi-proletari e semi-mantenuti

 

La consegna a domicilio non l’hanno certo inventata oggi e non era certo pagata meglio ieri, ma nessuno aveva mai creduto di farne un lavoro vero. Figuriamoci dell’opinionismo. Qui è come se lampeggiasse un enorme segnale luminoso. Se non riuscite a vederlo allora ve lo leggo — dice: coi lavoretti non si campa. Qualcuno doveva pur dirvelo. Quando esisteva ancora una cosa chiamata coscienza sindacale, chi accettava lavori a condizioni vessatorie veniva accusato di crumiraggio. Oggi si alzano le spalle e si borbotta: non c’è alternativa. Sicuri? I numeri del mercato del lavoro parlano di altro, e indicano che esiste una domanda per varie professioni qualificate. Certo un lavoretto può fornire un reddito integrativo in situazioni critiche, ma il profilo tipico del rider non è certo quello delle fasce più fragili della popolazione: si tratta di ragazzi intorno ai 25 anni, spesso studenti e concentrati nelle grandi città. Un segmento di popolazione, per inciso, che scegliendo il lavoretto paga l’esorbitante costo-opportunità che un simile impiego di tempo e di energie rappresenta a fronte di altre opzioni che pure esistono. Ma se facendo il rider non campi, perlomeno a lungo termine, da dove viene il reddito integrativo che permette di accettare simili condizioni? Ovviamente dalle famiglie, in forma diretta (trasferimenti di reddito) o indiretta (alloggio, vitto, servizi).

 

Nei suoi studi sul sistema-mondo, Immanuel Wallerstein ha parlato di «aggregati domestici semi-proletari» per descrivere una struttura sociale che caratterizza l’economia dei paesi del Sud del mondo. In pratica secondo Wallerstein uno dei principali fattori di compressione del costo del lavoro consiste nella possibilità da parte delle aziende di esternalizzare una parte dei costi di sostentamento sulle famiglie dei lavoratori e delle lavoratrici, o ancora sulle cerchie comunitarie allargate oppure sul welfare state. Una sorta di «reddito di cittadinanza» informale protegge l’individuo, con sommo vantaggio anche del padrone che, proprio grazie al contributo degli aggregati domestici, non è tenuto a garantire l’integralità del reddito di sussistenza. E chi non ha famiglia, non ha reti di protezione? Verrà pagato poco come tutti gli altri, perché sono gli altri a determinare il livello della marea.

 

Nel mondo occidentale assistiamo allo stesso meccanismo descritto da Wallerstein, ma in questo caso — guardiamo il bicchiere mezzo pieno — sarebbe più corretto parlare di aggregati domestici semi-borghesi. L’Italia, come noto, vanta una delle più importanti concentrazioni di risparmio privato del mondo occidentale: quindi un confortevole cuscinetto in grado non soltanto di assorbire lo shock della contrazione salariale, ma addirittura di favorire questo meccanismo perverso. Ecco dunque l’inconfessabile verità dietro la gig economy: studenti semi-mantenuti che arrotondano spingendo il costo del lavoro ad allinearsi sul budget-birre invece che sul budget-vita, aspiranti professionisti del terziario creativo pronti ad accettare salari da fame finché non rischiano davvero la fame, insomma una classe media disagiata che rimanda il tuffo orribile nella vita attiva accumulando lavoretti.

 

Hobby, lavoretto o lavoro?

 

Per reclutare rider e giustificare remunerazioni così basse, le piattaforme di consegna a domicilio insistono spesso sulla dimensione «sportiva» dell’attività. In effetti, se uno ama far corse in bicicletta schivando le macchine, perché non unire l’utile al dilettevole? Nella seconda metà degli anni Ottanta i futuri rider si divertivano con Paperboy, un videogioco sviluppato da Atari con protagonista un ragazzino che consegna giornali in bicicletta. Perché quella simulazione era considerata uno svago invece che un lavoro? Perché la gente era disposta a pagare per farlo. La stessa domanda si pone per vari tipi di attività. Perché alcuni pagano per pubblicare un libro e altri vengono pagati? Perché il sesso è talvolta gratuito e talvolta a pagamento? E perché dei contadini pretendono di essere pagati per spalare letame mentre dei turisti pagano per farlo in un agriturismo?

 

La gig economy ha colonizzato precisamente quella zona grigia tra svago e lavoro. Di fatto il prezzo del lavoro culturale è basso perché è spesso molto piacevole, uno «sport per la mente» direbbe qualcuno. Nel caso delle professioni creative è poi facile fare leva sulle aspirazioni che permettono di sfruttare al meglio il talento di una massa di semi-mantenuti iperqualificati: così è nato quello che vorrei chiamare gig journalism, il giornalismo dei lavoretti. Non che vent’anni fa facchini e reporter precari facessero la bella vita; semplicemente non esisteva un modello economico che ne mobilitasse una massa così ampia. È proprio la promessa di monetizzare la scrittura occasionale, ancora impensabile qualche anno fa, a trascinare un numero crescente di persone in questa competizione. Fino a qualche anno fa per esprimersi esistevano soltanto i blog, e ancora oggi gli universitari devono pagare per farsi pubblicare. Chi avrebbe mai pensato che un giorno avremmo visto dei soldi veri? Ci è bastato questo per montarci la testa: a venticinque anni sembrano tanti.

 

Si tratta di un modello di business di cui il colosso multinazionale Vice Media ha fissato le coordinate, a forza di investimenti milionari. Oggi sempre più editori propongono dei corsi di scrittura e di giornalismo culturale. Prendono atto, per citare la presentazione di uno di questi corsi sul sito della rivista Il Tascabile, che «abbiamo a che fare continuamente con giovani colti che vogliono iniziare a scrivere su una rivista». Chi promuove queste formazioni non promette necessariamente carriere di successo e in questo caso addirittura segnala che «non sappiamo come si riorganizzerà l’editoria, il suo modello economico e il rapporto tra scrittura e pubblicazione». Eufemismo, certo, ma un aspirante giornalista dovrebbe come minimo essere in grado di leggere tra le righe. Il problema sono tutti gli altri, che non solo non hanno le competenze necessarie per diventarlo, ma forse nemmeno quelle sufficienti a capire che non lo diventeranno.

 

Dal momento che esistono dei corsi di ceramica o di tango per dilettanti, perché mai sarebbe sbagliato che degli intellettuali trasmettano il loro know-how? Se il rapporto è consensuale, informato, adulto, non c’è nulla di male nell’insegnare una competenza anche se non professionalizzante. Scrivere sulle riviste è una cosa bellissima anche se non ci guadagni, come sapevano i fratelli Verri o Georges Bataille. Ma il gig journalism si nutre, naturalmente, anche della vaghezza di questo consenso, nonché della nostra tendenza a sopravvalutare il nostro talento, la nostra tenacia, le nostre risorse. Oggi chi sale su questa giostra lo fa sostanzialmente per due ragioni, lasciando da parte la pura e semplice vanità: primo per il gusto di comunicare e partecipare al dibattito pubblico; secondo per posizionarsi in vista di una carriera giornalistica futura. In questo senso una rivista prestigiosa può essere un’ottima nave-scuola per un aspirante giornalista sotto i trent’anni, ma il vero problema è che oggi in Italia non esistono i porti in cui approdare. Le posizioni saranno precarie anche presso testate ben più blasonate, nelle quali peraltro avrà più facilità a entrare un giovanotto appena uscito da un master Mediaset che un navigato editor di Vice. C’è poi da tenere in conto anche qui l’enorme costo-opportunità rappresentato dal tempo speso a cercare di inserirsi in un mercato che, alla fine dei conti, non potrà assorbire tutti quanti. Altri, come la scuola Holden di Alessandro Baricco, hanno capito che invece di promettere sbocchi irrealistici nell’empireo delle belle lettere tanto valeva mettere le competenze redazionali (anche) al servizio del marketing o dello storytelling aziendale.

 

Se vi stupisce l’omertà attorno alla questione, soprattutto da parte di molte firme orientate a sinistra, forse tocchiamo il cuore del problema: quando la tua magra remunerazione viene compensata con un salario simbolico — il prestigio di scrivere per Vice o di essere editor presso una piccola casa editrice romana — l’ultima cosa che ti conviene fare è rivelare al mondo che di fatto non arrivi a fine mese. L’intero modello del gig journalism si basa sulle scommesse particolarmente ottimistiche che i rider, pardon giornalisti, hanno fatto sull’avvenire. Ma un modello come questo ha poco da offrire a chi, superata una certa soglia di età, ambisce a migliori condizioni lavorative; e ciò fatalmente impone un drastico turnover. Per citare un’altra sfera del lavoro culturale, Anna Louie Sussman notava su Artsy che oggi «only Rich Kids Afford to Work in the Art World». Continuate a non vederlo, il segnale luminoso?

 

Un mercato senza mercato

 

Vi hanno raccontato che il lavoro culturale è come il lavoro vero, ma qualcuno deve prima o poi raccontarvi come stanno le cose. Potete sbattere i pugni sul tavolo finché volete, ma non cambierà la realtà dei fatti. Non è un lavoro perché nessuno lo considera un lavoro, nessuno vi tratterà come se fosse un lavoro, e tutte le regole più elementari di correttezza e di protezione non valgono. Ad esempio immaginate di lavorare per una prestigiosa rivista culturale, anzi immaginate di lavorare in redazione. La paga è poca, e va bene. Contate su quei soldi per vivere? In questo caso siete pazzi, lasciatevelo dire, e se trascinate altre persone con voi in questa vita siete pure criminali. Perché quei soldi, che sono pochi e che probabilmente riceverete in ritardo, di punto in bianco potreste non riceverli più: la vostra prestigiosa rivista culturale se l’è comprata un editore e l’editore se l’è comprato un gruppo editoriale, e il gruppo editoriale decide di punto in bianco che si cambia tutto. La rivista torna bambina e che importa la fine che fanno quelli che ci lavorano fino al mese prima? Non è un lavoro: e chi è stato così ingenuo da crederlo evidentemente è un ingenuo.

 

Questa strutturazione economica ha un evidente impatto sulle caratteristiche intrinseche dell’informazione prodotta: una segmentazione di classe (semi-borghese), di età, parzialmente di genere, ma soprattutto di contenuto. Poiché l’attività di scrittura deve essere per l’articolista qualcosa a metà tra lo svago e il lavoro (al fine di mantenere basse le sue pretese economiche) il risultato deve essere gratificante innanzitutto per lui. In questo modo il gig journalism tende naturalmente verso l’opinionismo, spesso in forma di sbrodolate inutilmente lunghe di cui questo stesso articolo è un esempio. Penseranno poi i titolisti in redazione a trasformare quelli che sono nel migliore dei casi dei piccoli saggi, e nel peggiore dei temini di maturità, in efficaci macchine acchiappaclick in grado di stimolare sui social network un dibattito sempre più polarizzato.

 

Il mercato dei lavori culturali è sempre stato caratterizzato da una forte precarietà e da percorsi di carriera difficoltosi di tipo «winner-takes-all». La redazione di un grande giornale presenta una struttura duale, simile a quella di una gang di spacciatori di droga, nella quale convivono pochi professionisti molto protetti e molto remunerati, in alto alla scala gerarchica, e una massa di aspiranti ridotti a paghe più o meno simboliche mentre tentano la loro scalata verso le posizioni più ambite. La peculiarità del gig journalism è che non è in grado di offrire nemmeno quelle posizioni più alte come premio di fine carriera: le testate operano a partire da piccole redazioni messe assieme con pochi mezzi, sfruttando il telelavoro e l’impegno 24/7 di giovani volonterosi.

 

Il problema è che questo modello di business, ad oggi, non funziona. O meglio funziona soltanto fintanto che qualcuno ci crede, e regge soltanto a due condizioni. Primo, finché c’è un bacino di penne a buon mercato — alfabetizzate, dotate di solida cultura generale, ma non necessariamente delle competenze specialistiche e della capacità di analisi necessarie per produrre la mole di contenuti di qualità che dovrebbe alimentare tutti i magazine e siti oggi sul mercato. Secondo, il gioco funziona soltanto finché qualche investitore o inserzionista ci crede. Perché un generico articolo pagato 50 euro semplicemente non genera 50 euro di entrate, e allora l’unica soluzione resta semmai lo sponsoring, il branded content, la consulenza alle aziende. Gli articoli a questo punto sono soltanto una vetrina per dimostrare alle aziende la propria penetrazione in un certo target di riferimento, i millennial istruiti con forte potere d’acquisto. Ad alcuni va bene, alla maggior parte degli altri peggio. La dinamica aspirazionale struttura l’intero settore, perché non solo soltanto le firme a sognare di «fare il salto» adottando strategie di sovrainvestimento e dumping, ma gli editori stessi. Chi piglia due lire per scrivere un articolo, tradurre un libro, fare un’illustrazione deve capire che spesso i soldi non ci sono per davvero: che le riviste e gli editori con cui collaborano non li leggono abbastanza persone, che la loro attività produce più debiti che profitti, che domani falliranno perché sono tenute in vita artificialmente. Dov’è il famoso plusvalore? Non c’è più, probabilmente non c’è mai stato. Stiamo pur sempre parlando di cultura.

 

L’economia delle reputazioni

 

Scoppierà, prima poi, anche la bolla del longform. Prendiamo un media group come Vice, che macina enormi profitti. La solidità del suo modello è essa stessa una narrazione, poiché regge su una dinamica di espansione: deve fare affluire sempre nuovi capitali e perciò produrre sempre nuovi dividendi da ridistribuire, comprimendo il costo del lavoro. Oggi la sua profittabilità, in un certo senso, non è altro che l’effetto meccanico di questo schema di Ponzi in cui s’intersecano le aspettative degli investitori e le aspirazioni dei giornalisti. Fintanto che la macchina si muove e cresce, tutto va bene; finché magari un giorno non avrà raggiunto una posizione da cui dominare il mondo dell’informazione in rete, vivendo di rendita di posizione e abbeverandosi a mastodontiche economie di scala. Oppure collasserà sotto il peso delle infinite contraddizioni, afflosciandosi su quel suo corpo fragilissimo composto dai giornalisti semi-pagati — forse anche, ammettiamolo, quelli semi-pagati meglio in tutto il carrozzone del gig journalism.

 

Chi si nasconde dietro questa improduttività per far lavorare a basso costo gli altri dovrebbe riconoscere che il suo guadagno è di altro genere, e lo chiameremmo «plusvalore reputazionale». Vale per gli individui come per le aziende. È quello che spende il banchiere Matteo Arpe quando sventola la proprietà del quotidiano Pagina99 come se fosse un orologio d’oro, mentre per mesi languiscono i pagamenti dei collaboratori. È quello che spende Massimo Coppola quando trasforma la sua esperienza presso la casa editrice ISBN, di fatto economicamente insostenibile e incapace di remunerare i suoi traduttori, in un biglietto da visita per andare a dirigere Rolling Stone o collaborare in RAI. Anch’io, nel mio poco tempo libero dal lavoro che mi nutre, ho ricoperto una carica-patacca nota come «editor-at-large» per un magazine online e mi vanto di dirigere una collana da trecento copie per un piccolo editore: mi ci pago qualche birra. Tutto sta nel muoversi abbastanza in fretta da un progetto insostenibile all’altro, creare reputazioni per accumulare la propria, poi se necessario dare la colpa al mercato che non capisce la bellezza del progetto. I più bravi riescono persino a passare dalla parte delle vittime, e alcune delle vittime a raccogliere qualche briciola. Come notava Costas Lapavitsas in Profiting without producing anche le bolle speculative, prima di scoppiare, producono un profitto di alienazione.

 

Dall’alto ci osservano quelli che sono finalmente arrivati. Proprio come noi si sono dedicati per anni alla cultura senza guadagnarci un soldo, accumulando una rete di contatti, costruendo il loro prestigio, trovando persone pronte a fidarsi di loro e infine riuscendo a godere della loro rendita di posizione. Potrebbero raccontarcelo per filo e per segno, dallo scranno di barone a cui sono faticosamente arrivati: un giorno forse arriverai dove sono io, sarai come me, ma intanto devi startene buono e zitto, e contare sui risparmi di famiglia finché non passa la nottata. Non ne hai? E allora cosa ci fai ancora qui, nessuno te lo ha detto che questo è soltanto un hobby? A poco servono quei quattro gatti che denunciano le contraddizioni della gig economy, facendo passare il messaggio che questo modello sia riformabile: e invece no, è basato sul lavoro micropagato e senza lavoro micropagato cessa di esistere. E lo abbiamo accettato tutti, dal primo all’ultimo. Perché ci piaceva.

 

Il problema è che l’intera economia si sta trasformando in un’economia di lavoretti. Mi permetto di lanciare un appello al nuovo governo, ricorrendo a un esempio nelle sue corde: volete chiudere le frontiere per cacciare gli immigrati perché fanno dumping salariale? Mandate via gli studenti fuoricorso piuttosto, gli intellettuali della domenica, i figli e le figlie della classe media con la vocazione a rovinarsi. Io sono già partito.

Raffaele Alberto Ventura

tratto da https://www.che-fare.com/verita-gig-journalism/