la (presunta) fine del capitalismo

E' di nuovo di moda proclamare la fine imminente del capitalismo mondiale. Dopo decenni di quasi egemonia del pensiero neoliberista – un periodo in cui, nelle parole di Fredric Jameson, anche per una persona di sinistra “era più facile immaginare la fine del mondo che vedere quella del capitalismo” – svariati libri usciti di recente annunciano una grande trasformazione alle porte, che rimpiazzerà il sistema economico attuale con qualcosa d’altro. Dico “di nuovo” perché, ovviamente, è dalla metà del diciannovesimo secolo che il marxismo predice la fine più o meno imminente del capitalismo, ma finora ha drasticamente sottovalutato la sua resilienza. (Un’argomentazione più sofisticata individua proprio in quelle critiche – o meglio, nei movimenti sociali e nelle istanze politiche ad esse ispirati – ciò che ha salvato il capitalismo. Ci sarà modo di approfondire la questione più avanti.) C’è qualcosa nelle nuove profezie sulla fine del capitalismo che potrebbe renderle più vere di quanto sperimentato in passato? E se così fosse, che genere di sistema potremmo vedere al posto dell’attuale regime capitalista?

Storicamente, le previsioni del marxismo circa la fine del capitalismo partono da due presupposti. Uno è la “caduta tendenziale del saggio di profitto”, un’idea che Marx ha sviluppato dalle teorie dell’economia classica di Smith, Ricardo e Mill. Già Smith aveva suggerito che con l’espansione del capitalismo, l’ingresso nel mercato di un maggior numero di capitalisti avrebbe prodotto un aumento della competizione, andando a comprimere i profitti. Marx aveva aggiunto a questo meccanismo un aspetto auto-alimentante: con l’intensificarsi della competizione, i singoli capitalisti avrebbero investito in macchinari per aumentare la produttività. Ciò avrebbe permesso un aumento dei guadagni sul breve termine, finendo però alla lunga per incidere sulla “composizione organica del capitale” – la proporzione fra lavoratori e macchinari, che oggi potrebbero essere anche software e robot. Questo avrebbe contribuito a comprimere i profitti sino a farli tendere a zero, privando di senso l’idea stessa di attività economica.

 

L’idea della caduta tendenziale del saggio di profitto è stata ripresa ultimamente nelle analisi sulle conseguenze dell’automazione. In Zero Marginal Cost Society, Jeremy Rifkin sostiene che l’effetto combinato dell’automazione di seconda generazione (basata sull’intelligenza artificiale, e quindi in grado di gestire problemi più complessi) e di una rete globale sempre più vasta fondata sulla Internet of things finirà per spingere a zero i margini di profitto, rendendo di fatto obsoleta l’intera economia capitalista.

 

Il problema di quest’argomentazione è che l’automazione va avanti da un sacco di tempo – sin dall’epoca della ‘Giannetta’, una macchina filatrice introdotta a fine ‘700 – e la tendenza a comprimere i profitti del settore manufatturiero non è nulla di nuovo.

 

L’opera di Robert Brenner dimostra che i profitti di quel settore negli Stati Uniti sono in calo costante dagli anni ’60, e persino quelli derivanti dalla produzione di componenti per cellulari e computer nel Pearl River Delta ( l’area intorno a Guandong/Shenzhen in Cina) sono oggi quasi inesistenti. E questa è una delle ragioni per cui le attività produttive di base, poco redditizie, sono migrate verso il fondo della catena globale del valore, spingendo adesso la Cina a investire per rimpiazzarle con l’innovazione, il design e il branding – in grado di produrre un valore maggiore. Storicamente il capitalismo è riuscito a sopravvivere bilanciando la caduta tendenziale del saggio di profitto con l’invenzione di nuove attività e l’apertura di nuovi mercati.

 

Da quando la diffusione delle tecnologie informatiche ha reso possibile l’automazione computerizzata e la creazione di una rete produttiva globale, abbiamo assistito a due reazioni del genere, in stretto legame reciproco.

 

In primo luogo, il declino dei profitti derivanti dalle attività manufatturiere di base ha prodotto una crescita degli investimenti nei cosiddetti beni immateriali, come l’innovazione, la flessibilità alle esigenze di mercato, e soprattutto il brand. Se da una parte è difficile fare margini limitandosi a vendere computer, dall’altra risulta più facile se i computer che si vendono hanno il marchio Apple, a promessa di un’esperienza intangibile che ne giustifica il prezzo doppio rispetto a un prodotto generico. Nell’occidente, e ormai sempre di più anche in Asia, i figli e le figlie di una classe operaia ormai ridondante sono assorbiti da professioni “creative” che si occupano di produrre proprio quel tipo di valore immateriale.

 

In secondo luogo, il declino dei profitti del settore manufatturiero è stato compensato da un colossale processo di finanziarizzazione, che ha spostato il gioco capitalista dalla produzione e vendita di cose alla conquista di posizioni di rendita finanziaria. Dagli anni ’60 a oggi, la componente finanziaria della composizione complessiva dei profitti aziendali dell’indice S&P è passata da circa il 10 a circa il 50 per cento negli anni prima della crisi finanziaria del 2008.

 

Allo stesso tempo la componente finanziaria, e non immediatamente legata alla produzione e vendita di beni, dei ricavi delle grandi corporation è anch’essa aumentata, rendendo per esempio la financial division della General Motors la componente di gran lunga più profittevole della società.

 

Per dirla senza peli sulla lingua, la General Motors (così come la Fiat) non è principalmente un’azienda che vende auto; è un’azienda per cui la vendita di auto è una scusa per fare da banca. C’è un legame molto forte fra il passaggio agli immateriali e il passaggio alla finanza. Il solo marchio può rappresentare fino alla metà del valore di listino di un’azienda. Questo significa che costruire un marchio non è solo un modo per garantirsi un margine maggiore sui prodotti di consumo; è anche un modo per garantirsi una valutazione finanziaria superiore a quella giustificata dai bilanci.

 

Questo vale in particolar modo per le aziende di Internet come Facebook, per cui il rapporto fra valutazione di mercato e fatturato è più di dieci volte superiore alla media. In breve, viviamo già in una società a zero costi marginali, e per quanto riguarda le attività manifatturiere di base ci viviamo da un pezzo. Di per sé, questo finora non ha minacciato in alcun modo il capitalismo; semmai ne ha rafforzato il dominio, nella misura in cui questo ampio processo di finanziarizzazione ha portato a investire nelle vite quotidiane di persone normali, che ora hanno bisogno delle banche e degli istituti di credito per permettersi una casa, un’istruzione, una pensione.

 

Le analisi che si limitano a indicare la caduta tendenziale del saggio di profitto come innesco della crisi del capitalismo tendono a sopravvalutare la razionalità del sistema. È vero che il capitalismo prospera quando è in grado di generare ricchezza economica – quando le attività economiche possono essere fonte di prosperità diffusa – quando ‘il bene di General Motors coincide col bene comune degli Stati Uniti’ come diceva Charles Erwin Wilson, amministratore delegato della General Motors diventato poi Segretario della Difesa dell’amministrazione Eisenhower.

 

Tuttavia, il capitalismo sopravvive anche in periodi di crescita lenta, in cui il suo contributo alla società in generale appare meno evidente. Il capitalismo finanziario, in particolar modo, fa affidamento sul potere politico, sulle lobby e sui gruppi d’interesse, per estrarre da ogni attività della vita quotidiana una rendita che può essere difesa ed estesa anche se non contribuisce granché al benessere comune.

 

La caduta tendenziale del saggio di profitto, tuttavia, crea anche disparità sempre maggiori. Questo dipende dal fatto che, col declino dei profitti, le aziende più grandi tendono a scalzare o assorbire le più piccole. Insieme all’automazione, questo comporta un calo della domanda di forza-lavoro, il che a propria volta riduce la forza contrattuale dei lavoratori. Gli stipendi e la quota di plusvalore sociale crollano, mentre i proprietari e i gestori di organizzazioni produttive sempre più vaste, o di flussi di denaro sempre più massicci, vedono i propri guadagni aumentare. Se negli ultimi decenni la povertà estrema è stata drasticamente ridotta, è stato in larga misura perché un ampio numero di persone povere sono entrate nell’economia capitalista (già solo la Cina ha sollevato quasi un miliardo di persone dalla povertà assoluta convertendo masse di contadini in operai).

 

D’altro canto, per chi era già incluso nell’economia capitalista le disparità di reddito non hanno fatto che aumentare vertiginosamente. Non solo: l’attuale processo di automazione tende a rendere l’economia capitalista indipendente da una porzione sempre maggiore della classe operaia. Questa è l’argomentazione conclusiva di Erik Brynjolfson e Andrew McAfee, due economisti del MIT.

 

A loro parere l’automazione di seconda generazione e la robotica renderanno ridondanti un gran numero di professioni del ceto medio in precedenza anche ben retribuite: gli avvocati, i contabili, i dirigenti, gli specialisti di marketing si vedranno esclusi dalla partecipazione al mercato del lavoro. Qualcosa di simile è già successo alla classe operaia dell’Occidente industrializzato.

 

La deindustrializzazione li ha costretti – e soprattutto ha costretto i loro figli – ad accettare lavori malpagati e privi di forza contrattuale nella cosiddetta Walmart economy (commessi, impiegati di call center) o ancora peggio nella nuova app economy (conducenti di Uber, fattorini di Deliveroo). In parallelo alla contrazione dello stato sociale, questa tendenza rischia di delegittimare il sistema capitalista nel suo complesso. Se sempre meno persone vedono nella partecipazione all’economia capitalista un modo accettabile di guadagnarsi da vivere e costruire una famiglia, sempre meno persone condivideranno e sosterranno i valori del sistema. (E in effetti un recente articolo di Time sostiene che solo il 19 percento dei giovani fra 19 e 29 anni negli Stati Uniti si dichiarano ‘capitalisti’.)

 

Questo è l’argomento alla base di alcune recenti ricerche sociologiche. Secondo Wolfgang Streeck, la tendenza del capitalismo a concentrare risorse e potere nelle mani di una nuova classe transnazionale di banchieri e top manager (a discapito della vecchia borghesia industriale, ancora radicata sul territorio) ha tagliato fuori una quantità sempre maggiore di popolazione, mettendo a rischio il fondamento valoriale del sistema capitalista, la sua stessa riproduzione.

 

In certa misura, ovviamente, questo è vero. Il populismo di Trump e Le Pen testimonia che nelle economie sviluppate sta crescendo il malcontento nei confronti del capitalismo. Tuttavia, non c’è ragione per cui questo non possa sopravvivere anche in assenza di legittimità. Basti pensare all’India: un caso esemplare di sviluppo capitalista ben riuscito, in cui però quasi il 90 per cento della popolazione non è in alcun modo coinvolto nel sistema economico formale. Il sostegno popolare può essere sostituito da un aumento del controllo e della repressione; è facile scaricare sui migranti le colpe del sistema, e fintanto che le masse non saranno in grado di incanalare il loro malcontento resteranno prive di potere politico.

 

Una delle maggiori differenze rispetto al passato è che le previsioni più recenti di una fine del capitalismo sono particolarmente tetre e prive di immaginazione. Streeck vede nel futuro del capitalismo un lungo periodo di stagnazione, determinato da tre tendenze che si rafforzano reciprocamente: il rallentamento della crescita economica, l’aumento del debito pubblico (per compensare la mancata crescita) e l’inasprirsi delle disparità (causa e conseguenza della combinazione di bassa crescita economica e aumento del debito).

 

Il risultato sarà un sistema che comincerà a disgregarsi, prima lentamente, poi in modo sempre più rapido, ma senza un dramma percepibile – ‘not with a bang but a with whimper’, come scriveva Eliot. (Le attuali politiche di quasi tutti i governi dell’Unione Europea sembrano tese a garantire che il declino sia graduale anziché catastrofico). O, come scrive Streeck:

 

“La cosa più probabile, col passare del tempo, è una costante accumulazione di disfunzioni più o meno piccole; nessuna di per sé necessariamente letale, ma quasi tutte irreparabili, specialmente man mano che diverranno troppo numerose perché le si possa affrontare individualmente. […] Alla lunga, le mille soluzioni provvisorie per gestire la crisi sul breve termine collasseranno sotto il peso dei disastri quotidiani prodotti da un ordinamento sociale atomizzato e in profondo dissesto.”

 

Il capitalismo nel futuro prossimo ristagnerà in un limbo, morto o prossimo alla morte a causa di un’overdose di se stesso ma ancora duro a morire del tutto, finché non ci sarà qualcuno che avrà la forza di trascinarne via il corpo. Questa condizione offrirà ricche opportunità a signori della Guerra e a oligarchi, imponendo agli altri una situazione di incertezza e insicurezza permanente, per certi versi simile al lungo interregno che ebbe inizio nel Quinto secolo dopo cristo e che ora chiamiamo the dark age, l’età oscura.

 

In mancanza di un entusiasmo popolare per un sistema alternativo non c’è via d’uscita da questa stagnazione. Questo ci conduce al secondo presupposto delle previsioni marxiste. Marx ipotizzava che la caduta tendenziale del saggio di profitto avrebbe generato una polarizzazione della ricchezza, quindi una povertà e una disperazione sempre maggiori nella classe operaia. Ma ipotizzava anche che la concentrazione dei lavoratori nelle fabbriche e nei nuovi sobborghi operai avrebbe creato luoghi in cui articolare tale disperazione in una piattaforma politica collettiva.

 

Non solo: questa piattaforma collettiva avrebbe elaborato una visione e un progetto di futuro che sarebbero andare a rimpiazzare o ‘negare’, in senso hegeliano, l’ordinamento capitalista. E quindi, se il capitalismo costituiva la negazione della natura umana, la resistenza operaia avrebbe prodotto la ‘negazione della negazione’, aprendo la strada a un futuro post-capitalista più progredito. Da questo punto di vista, il problema della caduta del saggio di profitto è tale solo in quanto testimonia di uno sviluppo inadeguato delle forze produttive della società.

 

Per metterla in termini più contemporanei: il problema non sono la robotica o l’automazione in quanto tali, ma il fatto che non sappiamo cosa farci. Oggi queste cose sono ancora utilizzate nella cornice di una società consumistica e industriale costruita intorno a una visione ormai obsoleta. Fino a quando non troveremo un impiego migliore delle nuove tecnologie, la stagnazione non farà che andare avanti.

 

 

L’argomento principale e spesso dimenticato di Marx è che le rivoluzioni non nascono dal risentimento o da un senso d’ingiustizia; piuttosto, nascono dalla convinzione collettiva che si può fare di meglio, che si può immaginare e creare un sistema più razionale ed evoluto del precedente. Da questo punto di vista, l’attuale crisi del capitalismo sembra innanzitutto una crisi immaginativa. Il problema è che non possiamo immaginare un ordinamento sociale radicalmente diverso dal capitalismo attualmente in declino. L’avanguardia del capitalismo contemporaneo si sta dimostrando straordinariamente incapace di organizzare le forze produttive liberate dalle tecnologie informatiche. L’uso migliore che abbiamo saputo trovare per l’intelligenza artificiale e l’analisi dei big data è la pubblicità mirata su Facebook per uno shampoo o del cibo per cani, o tutt’al più un app per ordinare la pizza senza dover alzare il telefono.

 

Questa incapacità si riflette anche nell’attuale proliferazione di imprese digitali. Come molti studi scientifici hanno ampiamente dimostrato, l’economia delle app – fatta di start-up, incubatori e venture capital – si risolve in uno straordinario spreco di tempo e denaro. Sono pochissime le start-up che riescono a sopravvivere, e quelle che ci riescono sono spaventosamente sopravvalutate. Persino dei casi virtuosi come Facebook hanno valutazioni di mercato astronomiche rispetto agli utili, per non parlare di casi-limite come Uber e AirBnb, che di utili per ora non ne fanno. (Uber ha perso 1,4 miliardi di dollari nei primi tre trimestri del 2016, eppure è ancora valutata 50 miliardi.) Il sistema finanziario ha più soldi di quanti sappia impiegare, dopo quasi dieci anni di quantitative easing, le grandi aziende hanno riserve di contanti senza precedenti (la sola Apple è seduta su oltre 200 miliardi di dollari di liquidità). Queste riserve dimostrano che chi comanda i vertici dell’economia capitalista non vede niente in cui investire.

 

L’unica idea di un’alternativa al capitalismo articolata con un minimo di chiarezza potrebbe essere la sharing economy proposta da Paul Mason e Michel Bauwens, e oramai saldamente integrata nelle politiche di sviluppo digitale. L’idea è che poiché l’economia digitale, basata su Internet e tecnologie connesse, sta diventando la parte principale dell’economia contemporanea, e poiché l’economia digitale si fonda sulla condivisione in quanto modalità organizzativa fondamentale (vedi Wikipedia), la condivisione finirà per rimpiazzare il capitalismo nel ruolo di modalità principale di organizzazione sociale. La classe politica farà resistenza, ma come sostiene Mason, i politici non saranno in grado di resistere indefinitamente alla necessità economica: un cambiamento politico è molto probabile.

 

La cosiddetta economia digitale è destinata ad essere una parte importante di ogni sistema post-capitalista, come lo sono del capitalismo attuale. L’estrapolazione da questo stato di cose di una visione di come può essere una sharing economy estesa a ogni ambito della società si fonda però su un grave errore di analisi. Tende a confondere la condivisione in quanto metodo di organizzazione della produzione con la condivisione in quanto principio distributivo. I partecipanti reali all’economia digitale potranno anche condividere alcune risorse produttive, ma per guadagnarsi da vivere coi loro sforzi continuano a fare affidamento sul mercato (o su mercati monopolizzati da determinate aziende clienti).

 

La porzione di sharing economy assimilabile a Wikipedia è estremamente marginale nell’economia mondiale: se si escludono le iniziative di bike-sharing e gli orti urbani comunitari finanziati con soldi pubblici, ne resta veramente ben poco. Nel complesso sembra un po’ una forzatura pensare che un giorno potremo semplicemente sbarazzarci delle complicatissime strutture istituzionali che sorreggono l’economia globale – dai mercati finanziari alle reti logistiche transnazionali – e cominciare a condividere e basta – anche solo nelle comunità locali. Sembra un ritorno delle fantasticherie comunitarie che hanno segnato la fine della fase progressista della ‘rivoluzione culturale del ‘68’. (Come Umberto Eco fa notare sarcasticamente al suo carattere Casaubon nel Pendolo di Foucault, parlando di uno studente radicale che aveva minacciato di riempirlo di botte per un commento fuori luogo su qualche rivoluzionario di rilievo: ‘Ora vive in una comune dove intrecciano cesti di vimini.’)

 

In effetti, le visioni del futuro della sharing economy tendono ad un certo romanticismo. Spesso invocano forme di solidarietà di quartiere o di vicinato che solo raramente permangono. Oppure incorporano idee di una ‘decrescita’ alla Serge Latouche.

 

Non ipotizzano un ulteriore sviluppo economico, ma solo un modo diverso di condividere ciò che già abbiamo. Ma uno scenario futuro deve immaginare e lottare per un’organizzazione più progredita dei mezzi di produzione, altrimenti non avrà la forza per sfidare lo status quo. Non deve essere per forza il tipo di crescita che si alimenta bruciando combustibili fossili. Al contrario, dovrebbe incoraggiare un tipo di crescita che si alimenta con la transizione verso una società più sostenibile (o, più probabilmente, creando resilienza in vista di una prossima catastrofe ecologica). Ma – ed è importante sottolinearlo – l’unica via d’uscita dall’economia capitalista è la crescita. Le idee conservatrici che partono dall’esigenza di conservare e difendere delle ‘comunità’ e delle forme di vita a rischio non riusciranno a mobilitare un sostegno di massa. Al più resteranno strategie di autodifesa per le élite di sinistra.

 

A ben vedere, il romanticismo hippy che informa le visioni della sharing economy tradisce anche una forma di eurocentrismo. Se per la classe media occidentale può essere carino immaginare un futuro in cui andiamo nella comune a scambiare le nostre carote con un po’ di marijuana, questa immagine risulta poco affascinante per una popolazione che deve ancora soddisfare dei bisogni primari. Wikipedia e progetti simili sono tanto cari ai lavoratori cognitivi occidentali (o a chi, in tutto il mondo, si comporta come loro), che vedono nel proprio modo di organizzare il lavoro un principio universale applicabile a tutta l’umanità. Ma è ingenuo cercare indizi di come possa essere il futuro – del capitalismo, o più oltre – nelle zone del mondo che storicamente sono in declino. Le alternative al sistema attuale si troveranno più probabilmente nelle regioni più dinamiche. Cosa succederà quando le nuove generazioni di cinesi, africani e indiani entreranno nella scacchiera economica globale, forti delle nuove tecnologie e orientate all’impresa in un contesto in cui ciò che resta del declinante capitalismo novecentesco non è in grado di soddisfare le loro aspettative?

 

Anche se è difficile, al momento, immaginare come potrà essere il futuro (“scrivere ricette per l’osteria dell’avvenire”, diceva Marx), vorrei avanzare due idee che, almeno a me, sembrano non prive di fondamento empirico.

 

Primo, l’industriosità. Oggi c’è pochissima politica nel senso classico, modernista, del termine; ma c’è moltissimo attivismo. In tutto il mondo una nuova generazione di ‘millennial’ si sta impegnando in una molteplicità di iniziative di innovazione dal basso, grazie a tecnologie sempre più economiche e a un accesso senza precedenti ai mezzi di produzione, nella forma di un patrimonio di conoscenze comuni e di una nuova infrastruttura di soluzioni software letteralmente o virtualmente gratuite. Alcune di queste energie vengono assorbite dal sistema globale delle start-up – fatto di incubatori e venture capital – ma si tratta di una percentuale ridotta. E benché la motivazione economica possa essere una spinta importante per questa nuova industriosità, di norma non è quella principale. Al contrario, i millennial si stanno impegnando in una nuova forma di attivismo tecnologico perché immaginano che le loro innovazioni – che si tratti di app di sharing o di elettrodomestici che trasformano la spazzatura in lombrichi commestibili – potranno in qualche modo ‘cambiare il mondo’. E se pure c’è dell’ingenuità politica in questo “soluzionismo”, come lo chiama Evgeny Morozov, questo dipende probabilmente solo dalla mancanza di una visione complessiva. Ciò che abbiamo è un attivismo in cerca di politica.

 

Secondo, i mercati, poiché questa nuova industriosità combina l’attivismo con l’attività più propriamente economica. I millennial vogliono cambiare il mondo, ma senza rinunciare a guadagnarsi da vivere. Anche qui, potrebbero non rifiutare la chance di fare miliardi con una ‘exit’, nella remota eventualità che accada. Ma nella maggior parte dei casi sembrano intenzionati a vivere in modo sostenibile, scambiando con gli altri le proprie competenze. Ciò che stiamo vedendo è il ritorno dei mercati trasparenti, preindustriali, di cui scriveva Smith: quello che Marx chiamava “scambio semplice”. E c’è una crescente consapevolezza del fatto che un mercato del genere è in antitesi col sistema capitalista basato sul monopolio e sull’estrazione di rendita. La parte forse più efficace della sharing economy è quella che propone mercati di capitale nuovi e più trasparenti – come Kickstarter e altre piattaforme di crowdfunding; all’orizzonte ci sono altri esperimenti di piattaforme cooperative e valute alternative, specialmente quando la tecnologia blockchain arriverà a maturità. Benché si tratti ancora di idee vaghe, prepolitiche, non è inconcepibile che una visione politica nuova e più articolata possa emergere dal conflitto fra, da una parte, il desiderio di mercato di una moltitudine di soggetti industriosi convinti di avere il futuro in mano, e dall’altra parte un sistema capitalista sempre più repressivo e conservatore, concentrato sull’estrazione di rendita. Ricorda qualcosa? Era più o meno lo scenario in Europa durante la ‘rivoluzione industriosa’ del diciassettesimo secolo.

 

Allora una nuova borghesia commerciale nacque dalla moltitudine di artigiani e mercanti che vendevano le loro merci sui nuovi mercati che si svilupparono nelle città e nelle campagne, man mano che la presa del potere feudale si indeboliva. Nella ‘rivoluzione gloriosa’ del 1688 questa nuova borghesia commmerciale acquisì per la prima volta un progetto politico comune. Possiamo però tracciare questo sviluppo ancora più indietro nel tempo. Dopo la Dark Age che Streeck ci propone come un modello probabile per il nostro immediato futuro, ci fu in alcune parti dell’Europa la ‘rivoluzione commerciale’. Una moltitudine di persone spesso marginalizzata dal sistema feudale alimentò la crescita delle città e del commercio; inventavano nuove istituzioni come le gilde o i commons o ne riscoprirono altre ormai in disuso (come il diritto romano) per aumentare la loro autonomia rispetto ai signori feudali. Questo periodo vide la nascita di un nuovo sviluppo, prima molto lento ma man mano in accelerazione, basato sullo scambio semplice di piccole innovazioni, frutti di un adattamento delle tecnologie esistenti ad un ambiente in trasformazione. Questa rivoluzione industriosa pose le basi di quello che noi conosciamo come il progetto della modernità. Forse questa volta il ciclo sarà più breve? Forse una nuova rivoluzione industriosa sta già emergendo, e forse ha la possibilità di produrre qualcosa di radicalmente nuovo. Questa è sicuramente una visione possibile, almeno se si guarda al futuro dal punto di vista di Bangkok o di Shenzhen, anziché da Londra, secondo Streeck una nuova Roma ormai in interminabile declino.

di Adam Arvidsson (traduzione di Vincenzo Latronico)

tratto da https://www.che-fare.com/presunta-fine-capitalismo/