la mia generazione

C’è una scena madre che accomuna i riti di passaggio della maggior parte delle persone mie coetanee, quei thirty-forty-something che sono cresciuti come me passando l’infanzia tra gli esordi della televisione commerciale e hanno compiuto i diciott’anni mentre Berlusconi scendeva in campo. È una specie di aneddoto-tipo che mi hanno raccontato tutti coloro che, dopo essersi laureati, hanno pensato di continuare a studiare, a fare ricerca, di lavorare all’università. Hanno fatto un dottorato e a un certo punto si trovano di fronte la possibilità di fare un post-doc, immaginano di fare i cultori della materia, di tentare il concorso da ricercatore ecc.

 

La scena si svolge nella stanza del loro professore di riferimento, quello con cui stanno studiando da dieci anni (che sia fisica dei materiali, glottologia semitica o merceologia applicata), il docente con cui, giocoforza, sono diventati familiari. C’è una scrivania che li separa, e il professore assume un tono più condiscendente del solito: parla dell’Italia che è in crisi, dell’università che è in crisi, del loro particolare settore di studio che è in crisi nera.

 

Poi viene al dunque. E può pronunciare due tipi di discorso. Il primo è: Parti! Ragazzo mio, vattene da qui! Emigra! Sei ancora giovane! Io non ti posso aiutare! Il secondo è: Mi servi! Ma mi servi non per perdere tempo con la tua ricerca! Mi servi per la mia ricerca! Mi servi per mettere a posto le mie carte! Per scrivere gli articoli che non ho il tempo di consegnare! Per tradurli nell’inglese che io non conosco! Per rispondere alle mail, per fare le fotocopie!

 

È una scena che capita sempre, e a tutti, una sorta di imprinting e di sintesi di qualunque disillusione dalle ambizioni che si sono coltivate in Italia negli ultimi trent’anni. Il professore può essere una persona generosa o gretta, intelligente o limitata, non fa molta differenza. Può invitare a partire per uno slancio di altruismo, o a restare per un gesto di magnanimità ancora maggiore; o può darsi il contrario: si vuole liberare del suo allievo perché ne teme la concorrenza, o vuole tenerlo sotto la sua ala per avidità. Le motivazioni personali non c’entrano.

 

Più interessanti sono le reazioni che lo studente, il ricercatore, il trentenne o giù di lì, può mostrare a quel punto, la sua parte nella scena madre. Qui il suo bivio è reale. E non si tratta della falsa alternativa partire/restare, ricominciare da capo in una città fredda dove non conosco nessuno/invecchiare facendo il portaborse di un professore che considero meno preparato di me. Si tratta di un’opzione emotiva. Tra l’accettare con fatalismo una certa immagine di futuro e quella di rigettare il quadro.

 

Molti miei amici, coetanei ecc. mi hanno raccontato che in circostanze simili si sono giocati la loro carriera universitaria: hanno sbattuto i pugni sul tavolo, hanno mandato a fanculo il professore, o anche, meno teatralmente, hanno deciso in un lampo che per loro il tempo delle biblioteche e delle au- le era finito. Altri, la maggior parte, hanno – come si dice a Roma – abbozzato, fatto pippa.

 

Se dobbiamo ripensare a cosa è stata la politica italiana dagli anni Novanta in poi, non si può prescindere per me da queste scene clou.

 

Proprio qualche anno fa, una statistica della Flc Cgil indicava come nel decennio precedente oltre il 90% dei ricercatori avesse abbandonato l’università italiana. L’allora ministra Gelmini di lì a qualche giorno replicò piccata, difendendo la sua riforma come lo strumento grazie al quale si era fatta una cernita tra ricercatori bravi e ricercatori parassiti.

 

Ovviamente ero e sono di parere del tutto opposto: sono convinto che ci siano state ormai, tra il 1990 e oggi, non una ma due generazioni di persone completamente tagliate fuori dalla possibilità di migliorare se stesse e trasformare il proprio paese.

 

Questo per me è il contesto, un contesto non solo depressivo, ma pensato per essere depressivo. E dunque, la reazione a questo contesto è stata la forma della politica per come l’ho conosciuta e praticata io. Rabbia, resistenza, supplenza. Poter dire no anche da soli, mi sono spesso autoconvinto, è la precondizione per dire sì insieme – questo è quanto mi sembra di aver imparato dall’Albert Camus dell’Uomo in rivolta.

 

Sono cresciuto, come chiunque abbia la mia età, con i miti politici del ’68 e del ’77: qualunque gesto somigliasse anche vagamente a una rivolta, mi è stato detto di misurarlo con quel metro simbolico. E lo stesso è stato per le sconfitte e i reflussi. Del ’68 e del ’77 ho anche imparato la tinta della sconfitta. Il terrorismo da una parte e l’eroina di massa dall’altra. In una generazione come la mia, che non ha mai avuto simili esplosioni se non in forme minori e spesso emulative, il confronto tra i momenti di sconfitta è più interessante.

 

La maggior parte dei miei coetanei sono sconfitti, penso, sebbene non abbiano ingaggiato nessuna battaglia. È gente implosa. Quarantenni, sono tornati a vivere a casa dei genitori, si imbottiscono di psicofarmaci. Non credo di essere il solo a conoscere persone che se la passano così. Gli anni fuori corso: da uno, due, diventano dieci o venti. Quel periodo brutto alla fine di una storia con una: si trasforma in una patologia irreversibile. Non sono servite leggi speciali, è bastata la fragilità della tenuta psichica.

 

C’è un episodio che spesso mi viene in mente. Risale a sette, otto anni fa. Stavo facendo un’inchiesta sul precariato cognitivo: intervistavo ragazzi tra i venticinque e i trentacinque anni, laureati, iperformati, ipercompetenti, che vivacchiavano tra assegni di ricerca volatili, elemosine dei genitori e nebulose promesse di contratti – quel paesaggio tristanzuolo che appunto conosciamo bene. Mi capitò una ragazza, con un dottorato in antropologia, che era riuscita a strappare una collaborazione part-time in una fondazione che le garantiva sei-centocinquanta euro al mese; il resto del tempo lo impiegava tenendo in vece della sua vecchia pigra professoressa un paio di corsi, esami e altro pseudo-volontariato universitario – retribuito poco più di un rimborso spese (un altro migliaio di euro all’anno). Tra gli intervistati, non era una di quelli messi peggio. Era una tipa in gamba, determinata, fiera della propria indipendenza (non voleva chiedere soldi ai suoi), e soprattutto era iperconsapevole delle condizioni di sfruttamento, delle dinamiche baronali dell’accademia ecc. Viveva insieme ad altre quattro tizie in un appartamento a Tor Pignattara. Condivideva una stanza doppia, un posto letto per cui pagava duecento euro al mese, un prezzo buonissimo. Più o meno a conti fatti le restavano cinquecento euro, che potevano un po’ aumentare con qualche introito delle ripetizioni (terzo lavoro, dunque). Di questa cifra spendeva circa trecento al mese, mi disse, per fare analisi. Ne aveva un assoluto bisogno perché si sentiva piuttosto depressa: a trenta e passa anni dormiva in un posto letto col materasso smollato come una matricola fuorisede appena approdata a Roma, non immaginava nessuno sbocco lavorativo concreto a lungo termine, si sentiva una fallita nei confronti dei suoi, non riusciva a prendere sul serio nessuna relazione sentimentale, desiderava avere un figlio ma le sembrava pura incoscienza, era sempre stanca (la fondazione per cui lavorava aveva sede dall’altra parte della città rispetto a casa e all’università).

 

Alla fine di quella lunghissima intervista, che si era tramutata in un botta e risposta sulle condizioni materiali e morali di vita negli anni Zero italiani, me ne andai a casa triste. Dovevo ammettere che la mia situazione non era troppo differente dalla sua; eppure, oltre questa sorta di empatia e di ri- specchiamento, non era scattato nessun senso di identità condivisa, nessun grumo di coscienza di classe, come si sarebbe potuto dire.

 

Il punto è che lei per provare a stare meglio andava a fare terapia, e con l’aiuto dell’analista cercava di migliorare il rapporto con i suoi; voleva riuscire a considerare legittimo il desiderio di potersi innamorare di un uomo, di mettere su famiglia, il suo essere capace di credere al futuro, e voleva sentirsi meno in colpa se non arrivava a fare per benino tutto quello che le veniva richiesto tra università e lavoro.

 

Il malessere sociale che l’aveva contagiata, lei se l’era pre- so in carico proprio tutto tutto. La formazione di una coscienza di classe era stata sostituita da un percorso individuale di ricerca di sintonizzazione psicologica, per cui spendeva quasi la metà di quanto guadagnava. Mi sembrò un simbolo perfetto di quello che stava accadendo alle generazioni di quest’età post-comunitaria. Invece di esternare il malessere, provando a generare conflitto sociale o quantomeno affratellamento, il disagio veniva tutto introiettato e si tentava di risolverlo a proprie spese – letteralmente.

 

Perché, mi sono chiesto più volte negli anni successivi, non è scattato un senso di identificazione più forte, nonostante le condizioni materiali, sociali, simboliche si presentassero così simili? Non ho una risposta, ma ho una sensazione. La sensazione è che nel Novecento ci siano state importanti agenzie di educazione informale all’uguaglianza, che oggi sono molto più deboli. Dov’è, mi posso domandare, che io ho imparato il valore dell’uguaglianza? Quand’è che l’ho vissuto, questo valore? Ecco: penso prima di tutto in famiglia, nell’esperienza della fratellanza. Io ho una sorella, e credo che sia stato fondamentale sapere tutti i giorni della mia infanzia che c’era qualcuno accanto a me che aveva i miei stessi bisogni, qualcuno con cui rispecchiarmi.

 

Mi ricordo un episodio della mia infanzia non poco significativo. Eravamo in vacanza, io e mia sorella, a casa dei miei nonni. Avrò avuto nove o dieci anni, ma sono sicuro che fosse un venerdì, e me lo ricordo bene perché il giorno prima avevamo guardato alla televisione un programma condotto da Emilio Fede, Test, che andava in onda di giovedì.

 

Il format della trasmissione era basato su un test psicologico. Gli spettatori a casa rispondevano alle stesse domande dei concorrenti e attraverso le risposte si arrivavano a delineare dei profili psicologici – nella prima puntata, per dire, il quesito era: sei pessimista o ottimista?

 

Nel giovedì che mi ricordo il test psicologico poneva una questione tipo: sei generoso o avaro? Avevo imparato nel tempo a riconoscere quali fossero le risposte giuste per ottenere punteggi alti, e quindi avevo realizzato, alla fine della puntata, un totale che poteva essere ottantasette se il massimo era cento: ero risultato quindi moltissimo generoso.

 

La mattina dopo, mi svegliai come al solito prima di mia sorella, una leggendaria dormigliona. Mia nonna mi aveva già preparato la colazione: latte e orzo e una mezza torta rimasta dal giorno prima. Io mi ero scofanato quasi tutto l’avanzo di torta. Mio nonno, con cui avevo guardato Test la sera prima, mi fece notare la cosa: io che avevo totalizzato un punteggio così alto come generoso, non ero capace di lasciare che le briciole a mia sorella.

 

Nel tempo siamo diventati solidalissimi, io e mia sorella. Questa solidarietà fraterna è stata, esageriamo, in nuce un piccolo esempio di coscienza di classe: una contrapposizione, una specie di alleanza buona contro i nostri genitori.

 

E a pensarci, molto banalmente, oltre alla famiglia, anche la società in un modo o nell’altro era un’agenzia di educazione informale all’uguaglianza. Se penso ai racconti di mio nonno, oltre a quelli familiari, appunto, in cui parlava delle decine di fratelli e cugini con cui si doveva dividere lo spazio e il cibo, mi ricordo anche i suoi racconti di guerra e quelli di fabbrica. L’esperienza terribile della solidarietà nella guerra e anche e soprattutto la vita di fabbrica mostravano senz’appello una condizione di uguaglianza, nella fragilità certo, nello sfruttamento anche.

 

Oggi questa educazione informale è molto meno rilevante nella formazione personale. Metà dei miei studenti sono figli unici, un buon quarto ha fratelli o sorelle ma di un solo geni- tore: quello che apprendono in modo inconscio questi ragazzi è di essere speciali, unici in qualche modo; è molto più difficile che sperimentino l’uguaglianza. La stessa cosa è evidente sul lavoro. Le decine di tipi di contratto oggi disponibili sono l’indice di una frammentazione della condizione lavorativa. L’utilizzo indiscriminato delle partite iva addirittura sottintende una condizione di solitudine simile a quella della monade: non esiste un ambiente di lavoro, l’ambiente di lavoro sei tu.

 

E allora la domanda che mi faccio: cosa vuol dire condivisione o partecipazione oggi se non ho imparato che cos’è l’uguaglianza, se per me l’uguaglianza non è un valore? Come faccio a rispecchiarmi? Come penso di poter combattere una battaglia insieme a qualcun altro?

 

Forse l’unica agenzia forte che ancora riesce in questa pedagogia dell’uguaglianza è la scuola pubblica. Per questo penso che sia il baluardo su cui una politica di sinistra deve concentrare in modo prioritario tutte le sue energie. Come posso utilizzare nuovi strumenti di partecipazione dal basso, se non ho mai imparato a confrontarmi nemmeno coi miei compagni di classe?

 

Circa quattro o cinque anni fa, mi sono reso conto che da più parti si stava muovendo qualcosa che assomigliava a una presa di coscienza di questo disastro della formazione politica.

 

C’è un episodio spesso ricordato da uno scrittore, Giorgio Vasta. Era la primavera del 2011 e la casa editrice Laterza ospitò un incontro che coinvolgeva quelli che in una lettera aperta sul Sole 24 Ore erano stati chiamati tq, intellettuali vari trenta-quarantenni. A un certo punto qualcuno, forse Vanni Santoni, forse Nicola Lagioia, per dare forza retorica al suo intervento, tirò fuori, quasi come sberleffo, un dispenser con del- le pilloline, dicendo una cosa del tipo: «Io sto così, mi capite!» Fu un attimo, che una alla volta, dieci, venti persone presero dalle loro borse, dalle loro tasche, i loro dispenser, le scatoline, le confezioni, le bottigliette di sonniferi, Xanax, melatonina, Tranquirit, Rescue e fiori di Bach vari. Si trattò di un momento di grande riconoscimento, a conti fatti l’atto fondativo di quel movimento di lavoratori della conoscenza che si sarebbe chiamato tq appunto.
C’era dell’ironia in quel gesto? Era il senso di una resa? La cultura del lavoro oggi è un processo complicato, perché il capitalismo avanzato è veramente molto avanzato, e mette a lavoro tutto, comprese non solo le nostra facoltà cognitive, ma anche – se ci pensiamo – le nostre psicosi. Per fare un esempio, io non sono soltanto un consumatore migliore se sono portato a fare shopping compulsivo, ma sono in un certo senso un lavoratore migliore se per esempio sono ansioso. Sono un lavoratore più produttivo se, mettiamo: sono 1) un manager che sviluppa una control-freakness, se sono 2) un ufficio stampa con manie narcisistiche, se sono 3) uno che fa più lavori e ha un bipolarismo accentuato. Già riconoscere questa condizione come patologica e determinata anche dalle forme del lavoro contemporaneo non è facile. Il rischio successivo è di fare di questa condizione patologica la condi- zione di rispecchiamento. Un orgoglio patologico, se ci si pensa. Una coscienza di far parte di una comunità di traumatizzati vissuta come coscienza di classe. Be’, ma in fondo quello eravamo: una comunità di traumatizzati.

 

Qualche mese prima della riunione alla casa editrice Laterza c’era stata una manifestazione di studenti. Il 14 dicembre era il giorno in cui Berlusconi riusciva ad avere la fiducia dopo lo strappo di Fini raccattandosi gli scherani di Scilipoti. Per strada a Roma c’era una manifestazione degli studenti dell’Onda che veniva attaccata dalla polizia in piazza del Popolo. Un paio di cassonetti rovesciati erano la scusa per circondare la piazza, in un modo che per qualche lunghissimo minuto sembrò la replica di quello che era accaduto nel 2001 in piazza Plebiscito a Napoli e per le strade di Genova. Ma quello che mi fu chiaro lì, in quel momento di pre-panico, era che la rabbia che la generazione post-2001 aveva maturato era una rabbia non ingenua, ma una specie di rabbia disincantata.

 

Se noi quarantenni è come se non ci fossimo ancora ripre- si dalla ferita di Bolzaneto, Diaz e Carlo Giuliani, per quelli che hanno dieci o vent’anni meno di noi non c’è stato, pare, nemmeno un processo di disillusione. È come se il disincanto fosse già la condizione originaria. Quel giorno di dicembre, dopo molto tempo, per la prima volta mi ritrovavo in una piazza con cui condividevo il senso di ingiustizia, ma nella forma pura dello spossessamento. Mi sembrava di non avere nulla da perdere.

 

Ciò che è venuto dopo, i referendum sull’acqua e il nucleare, le occupazioni (a Roma il teatro Valle e il Nuovo Cinema Palazzo per esempio), le manifestazioni No tav o quelle per Stefano Cucchi, hanno mostrato una nuova forma di politicizzazione, che aveva bisogno di tempi lunghi, di percorsi personali, di fiducie, incontri, e – forse più di tutto – di formazione, di autoeducazione alla politica.

 

Nel 2011 ho cominciato a riascoltare in loop un pezzo di Franco Battiato del 1980, «Up patriots to arms», di cui i Subsonica avevano appena fatto una cover. C’erano due versi che mi sembravano sintetizzare perfettamente quello che sentivo. Il primo era quando a un certo punto dice: «Se le panchine sono piene di gente che sta male», l’altro è quando canta: «Mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura».

 

Continuavo a incontrare, a vedere persone che mi manifestavano il loro disagio psichico, e dall’altra parte sentivo che c’era un chiaro problema di rappresentanza: mentre c’eravamo formati e iperformati, mentre il nostro immaginario continuava ogni giorno a essere plasmato con una profondità che forse nessuna generazione precedente aveva sperimentato, era come se ci dovessimo arrendere al fatto che i desideri e la loro stessa forma non avrebbero mai avuto una propria legittimità. Quello che tutti cercavamo, mi sembrava, era una comunità in cui riconoscerci. E questo era sei anni fa.

 

Quando sono comparsi sulla scena politica Beppe Grillo e Matteo Renzi, io mi ritrovavo a occupare il teatro Valle. E ho capito che se per certi versi la frustrazione era simile, c’era qualcuno che aveva provato a rispondere nell’immediato, in modo quasi compulsivo, a questo bisogno con un palliativo, con un succedaneo. Il grillismo e il renzismo sono stati e sono questo: dei feticci. Grillo è il feticcio della partecipazione, Renzi il feticcio dell’efficacia. Stavano cominciando a capitalizzare la frustrazione e il risentimento come emozioni politiche: due anni prima al No B Day (con quasi mezzo milione di persone in piazza è stata l’ultima grande manifestazione) si erano visti insieme Beppe Grillo e Nichi Vendola, i partigiani e il popolo viola, Antonio Di Pietro e Andrea Camilleri.

 

Sempre nel 2011 usciva per il Mulino un libro di Donatella Della Porta, Democrazie, che faceva una lunga disamina del crollo delle ideologie novecentesche e della fiducia nella forma-partito, e poi raccontava come dai movimenti degli anni Sessanta fino al Forum di Porto Alegre e ai bilanci partecipativi si potesse oggi imparare molto. Cos’era questo molto?

 

Il discorso sulle nuove forme di democrazia è tutto da costruire, oggi come sei anni fa. I social network o la rete in generale danno da sé la possibilità di rendere più democratico il discorso pubblico? Non sembra, anzi. Il potere di Google, Facebook, Apple o Amazon, se non assomiglia a quello di Grandi Fratelli, sembra piuttosto quello di grandi agenzie pubblicitarie.

 

Quando negli ultimi anni ho ricominciato a partecipare ad assemblee politiche, ho visto che molte persone non avevano neanche la capacità di stare a sentire senza parlare addosso, ho visto conflitti personali che non riuscivano a trasformarsi in contrasti di idee… A fare politica si impara col tempo.

 

Che cosa si impara?

 

Sempre nel 2011 mi capitò di accompagnare la mia classe a quella che doveva essere una conferenza informativa della Fondazione Veronesi: «Energia del futuro: proposte energetiche per un futuro sostenibile». Insieme a me, al teatro Quirino a Roma, alle nove e mezza di mattina, c’erano un’altra trentina di insegnanti, soprattutto di scienze o di fisica, e con loro un trecento-quattrocento ragazzi del triennio di vari licei della provincia di Roma. A conferire – dopo il saluto benedicente in un video registrato del presidente della fondazione, Umberto Veronesi, e addirittura un breve audio di Giorgio Napolitano – c’erano tre professori: Luigi De Paoli (Economia dell’energia alla Bocconi), Giuseppe Zollino (Ingegneria nucleare a Padova) e Giampaolo Manzolini (ricercatore in Energia e Ambiente al Politecnico di Milano).

 

A moderare, Alessandro Cecchi Paone – quello della Macchina del tempo. Che iniziò l’incontro proprio mostrando un filmato introduttivo «con lo stile Macchina del tempo», disse, sulla storia del nucleare in Italia. Dal pioniere Enrico Fermi in poi, ci fu presentato un videoclip nostalgico sui bei tempi dell’Italia ricca e spensierata e all’avanguardia: immagini di gente che balla il twist, gira in Lambretta e progetta le prime centrali nucleari italiane. Caorso, Montalto di Castro.

 

Poi parlò De Paoli, che ribadì il concetto della non sostenibilità dell’approvvigionamento energetico com’è ora in Italia, ed esplicitò che senza nucleare è difficile capire come si potrà fare in futuro.

 

Seguì Zollino – che fece un peana esplicito («non sono innamorato», si schermì, «sono appassionato») all’energia nucleare: meno rischiosa di tante altre («provate a chiedere a un superstite del Vajont se non avrebbe preferito una centrale nucleare vicino casa», era uno dei suoi ragionamenti stringenti) e di sicuro la più conveniente sul mercato energetico.

 

Da ultimo Manzolini, «giovane e bello» (come ce lo presentò Cecchi Paone), che – meno didattico degli altri – si prodigò in un excursus sulle energie rinnovabili, sempre attento però a sottolineare che queste da sole non bastano e non basteranno mai al fabbisogno energetico e che i combustibili fossili si stanno esaurendo (per cui?).

 

Il ruolo di moderatore Cecchi Paone lo svolse accordandosi alla sintonia di fondo e tenendoci anche a fare outing: «Io trent’anni fa al referendum votai a favore del nucleare. E già prevedevo che quella sconfitta avrebbe fatto precipitare l’Italia tra le cenerentole dell’economia mondiale».

 

Gli studenti, gli insegnanti e anche le famiglie si sarebbero potuti ritenere soddisfatti della bella giornata di approfondimento, no? Cecchi Paone lo chiese direttamente ai ragazzi:

 

«Avete domande, curiosità, questioni?» E capitò la cosa strana che questi diciassette-diciottenni non riuscirono proprio a evitare quel tono polemico tipico della loro età. Gli interrogativi fioccarono.

 

E il problema delle scorie?, puntualizzarono (in uno dei video a un certo punto si glissava affermando come nelle nuove centrali si sarebbe ricavata energia anche da queste). E il problema della sicurezza? (Ci fidiamo degli standard adottati dalle aziende costruttrici delle altre nazioni?) E il problema dell’impatto ambientale? E la salute: perché fino adesso si è parlato solo di costi e non di salute? E Fukushima? È proprio vero – come aveva affermato il professor Zollino – che la fase acuta sia terminata, nonostante i rapporti dell’Aiea dicano il contrario? E che logica è quella per cui se la Francia si dota di centrali nucleari lo dobbiamo fare anche noi («a me mia madre ha insegnato che non è che sia giusto per forza se la maggior parte lo fa»)? E perché nessuno di voi ha messo l’accento sul risparmio energetico, dando per scontato che i consumi devono essere sempre questi? E se capita un terremoto come in Giappone? Le centrali nucleari, si diceva nel video, sono state costruite per resistere all’impatto di un aereo di linea, è vero: e se non ci fosse nessuno schianto, ma un terremoto del nono grado sì? E la ricerca su un nucleare più pulito, tipo quella che è stata fatta da Carlo Rubbia? E le infiltrazioni criminali nella politica italiana, che garanzia danno per la gestione di un progetto così complesso come quello del nucleare? E, professor Zollino, lei dice che ci sono catastrofi terribili in termini di costi umani (il terremoto giapponese ha ammazzato trenta- mila persone, dice, e noi stiamo a focalizzarci su Fukushima…), ma non ci pensa che dopo un’alluvione o un terremoto si ricostruisce, mentre dopo un evento come Chernobyl e forse Fukushima lì rimarrà tutto inabitabile per anni? E l’euristica della paura, come la chiama il filosofo Hans Jonas: senza paralizzarci in un terrore antiscientifico, non dovremmo dare la giusta legittimazione a un sentimento di paura rispetto alle possibilità della tecnica? E che rapporto hanno le scienze umane con questi discorsi sui costi e lo svi- luppo economico italiano? Eccetera eccetera eccetera.

 

Alla fine dell’incontro potevi considerare (ritirando l’attestato di partecipazione con grafica à la Giovani marmotte) come fosse quasi irritante riconoscere che – nonostante tutti gli sforzi di eliminare il pensiero critico dall’educazione scolastica, improvvisando lezioni speciali sul modello marketing della Avon – questi docenti e soprattutto questi ragazzi di oggi abbiano la presunzione di non prendere per oro colato le parole che gli vengono propinate, e le confrontino invece con il loro bagaglio neanche ingenuo di conoscenze: e citino giornali stranieri, inchieste scientifiche, articoli su riviste specializzate, libri sull’argomento, o addirittura «quello che si è discusso in classe». Come dire, se il progetto di riforma della scuola è ogni giorno più evidente, sarà comunque diffi- cile «disinculcare» questa tarma dell’autonomia intellettuale da dei ragazzi così ostinati.

 

Ogni volta che ho fatto politica negli ultimi anni, mi sono ricordato questa mattinata qui, forse la migliore vittoria che ho visto. Ho capito che il deficit di rappresentanza (e dunque di potere), che mi sembrava essere il punto critico degli anni Zero, in realtà indicava solo l’involucro di una sostanza molto più grande e importante. Questa sostanza è l’accesso alla conoscenza.

 

Il classismo più feroce, la sperequazione più dura nei prossimi anni certo sarà quella per l’accesso alle risorse, sarà la discriminazione per le condizioni lavorative ecc. Ma tutto questo avrà come presupposto un’ideologia di fondo. Dal dopoguerra in poi, dagli anni Cinquanta, in Occidente si è compiuto forse il più grande esperimento sociale di tutti i tempi: quello dell’istruzione di massa. È stata, per me, la cosa più bella che potesse capitare al pianeta Terra. Oggi questo esperimento è messo in discussione: a che servono tutte queste persone istruite? Chi farà i lavori più umili se tutti sono laureati? Chi sarà disposto a farsi sfruttare dopo essersi formato come lavoratore altamente qualificato?

 

In un libro recente uscito per Laterza, Senza sapere di Giovanni Solimine, si riportano i risultati di una ricerca condotta da Save the Children: più di trecentomila ragazzi di età inferiore ai diciotto anni, residenti nelle regioni meridionali, non hanno mai fatto sport, non sono mai andati al cinema, non hanno mai aperto un libro o acceso un computer.

 

Ogni volta che penso a cosa si può fare per il paese in cui viviamo (e votiamo), mi ritornano in mente questi numeri. Perché i governi nascono e muoiono, i leader fanno infiammare e raggelare nel giro di pochi giorni, i teatri vengono occupati e poi sgomberati, progetti molto belli nascono, crescono e poi magari dopo qualche anno muoiono o si trasformano in altro.

 

Ma c’è qualcosa che invece rimane immutato: i ragazzi si disaffezionano alla politica, e un sentimento ostile – contro coloro che occupano una posizione di potere senza avere una visione – accomuna non solo chi fa il contestatore di mestiere: nel cuore di chi ha sedici, venti, venticinque anni spesso dimora un’insofferenza quasi feroce per chi campa di rendite di posizione, nel partito, nel lavoro, nelle proprietà. E dunque la politica in questi ultimi anni è stata essenzialmente questo: indignazione – spesso del tutto legittima – contro i privilegiati, siano vecchi tartufi da rottamare o casta da mandare in galera.

 

Per questo mi piacerebbe che – indipendentemente da come andranno le cose sulle prime pagine dei giornali, nelle discussioni parlamentari o magari alle prossime elezioni – facessimo un piccolo esercizio di consapevolezza, riconoscendo che c’è un’emergenza molto grave qui in Italia, e che se si vuole fare politica bisognerebbe dedicarsi anima e corpo a una sorta di New Deal culturale: un progetto di alfabetizzazione culturale su larga scala.

 

Scuole di strada, recupero dell’abbandono scolastico, volontariato, banche del tempo, militanza intellettuale… Invece di fuggire – a Berlino!, a Londra!, a Toronto! – invece di lasciare questo paese infame in cui scuola e università sono state disintegrate, in cui la cultura del lavoro è vaporizzata, in cui c’è il più alto tasso di dipendenza dalla televisione d’Europa (89%, dati Censis), assumiamoci un compito.

 

Non abbiamo un dovere per il fatto di essere, in fondo, dei privilegiati? Siamo persone che – nonostante la crisi – possono comprare libri, fumetti, dischi, discutere se ci piace più l’ultimo album dei National o quello dei Wild Beasts (a me il secondo), viaggiare ogni tanto e guardare in streaming l’ultima serie tv appena sottotitolata: non sembra un granché, il nostro ruolo è forse ridotto a quello di consumatori culturali di basso livello; ma, anche se non ci credete, è tantissimo per la maggior parte dei ragazzi nati in Italia.

 

Non facciamo battaglie soltanto per i nostri diritti (per giusti compensi sul lavoro, per poter accendere un mutuo senza dover avere la malleva della pensione dei genitori…), ma combattiamo anche – non è scontato, certo – per i nostri doveri. Siamo l’ultima generazione che potrà permetterselo.

 

Christian Raimo  [Questo scritto è uscito su La cultura in trasformazione, edito da minimum fax con il titolo “Diritti e desideri”]

 

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LA MIA GENERAZIONE (risposta di Alessandro Lolli)

Mi sorprende che nessuno abbia ancora sparato all'elefante nella stanza di quest'articolo. Neanche chi a questi elefanti spara di mestiere. L'autore ci racconta della sua generazione (i cui parametri anagrafici mutano per tutto l'articolo), pretende di parlare dei "suoi coetanei", ma poi leggiamo che la scena madre che li accomuna tutti è qualcuno che “cerca un post-doc”. Manco un dottorato, quello l’hanno già fatto. Un post-doc. Sapete quanta gente riguarda questa scena madre? I laureati in Italia, nella generazione di Raimo, dati Eurostat, sono il 26%. Togliete quelli che non hanno intrapreso un percorso di ricerca (il grosso dei laureati non umanisti), togliete quelli che volevano farlo, ma neanche il dottorato gli è riuscito, e avrete la dimensione della Generazione di cui/a cui parla Raimo.
Ma fosse solo quest’elefante nella stanza. È uno sproloquio che si dirama in dozzine di stanze che ci vuole fantasia per chiamare appartamento. A un certo punto, per esempio, la generazione di Raimo si stringe ancora e la scena madre diventano lui, su sorella, Vanni Santoni, Nicola Lagioia e un’altra dozzina di scrittori che battono le scatole di antidepressivi sul tavolo e cantano “One of us! One of us!”. Questo spettacolo vuole essere in continuità con l’esperienza di un personaggio incontrato poco prima, che fa tre lavori e va in analisi.
Peccato che gli “addetti alla cultura”, per lo meno, fanno un lavoro gratificante (e ad oggi sono quasi tutti gratificati, Raimo compreso), mentre il personaggio di prima, insieme alla stragrande maggioranza degli esseri umani, si sbatte tutta la vita senza neanche poter sognare un briciolo della gratificazione, della realizzazione, della contropartita simbolica di uno scrittore.
Esseri umani che dedicano la loro esistenza su questo pianeta in lavori anonimi, negli uffici, negli esercizi commerciali, nelle fabbriche piccole, medie e grandi, sui mezzi di trasporto di gomma di rotaia e di cielo, campando di impicci e violenze nel sommerso del lavoro nero. Questi Raimo li vede? Ce li ha presenti? Io qui dentro non li ho visti.
Poi le stanze si moltiplicano, appare Genova, Carlo Giuliani, l’Onda, i Subsonica, il Teatro Valle, un saggio di quegli anni che dice questo, un saggio di quegli anni che dice quest’altro, gli alunni geniali di Raimo che mettono nel sacco gli esperti pro-nucleare di Cecchi Paone citando l’euristica della paura di Hans Jonas (siamo finiti nell’autofiction del suo libro sul professore di liceo) e io mi ritrovo a vagare per questa casa escheriana senza capire un cazzo.
L’articolo si chiude con l’auspicio di “una sorta di New Deal culturale: un progetto di alfabetizzazione culturale su larga scala”, che può essere o meno condivisibile ma non ha niente a che vedere con buona parte di ciò che è stato detto precedentemente.
Sarà che, come gli studenti di Raimo, c’ho “questa tarma dell’autonomia intellettuale” e devo sempre rompere i coglioni, ma questo sproloquio che vedo rimbalzare nella mia camera dell’eco mi pare costruito proprio per rimbombare qua dentro, senza altro scopo. Sono scenette in cui si rivedono persone istruite e di sinistra che hanno “più o meno una certa età”, e niente più.

Alessandro Lolli

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io descrivo una povertà culturale di massa, dovuta al disinvestimento su scuola e università pubblica. Per me è questa la gravità. La gravità sono il 90% di ricercatori che smette di fare ricerca, i dati impressionanti sulla dispersione scolastica, e l'assoluta povertà culturale che riguarda milioni di persone in Italia (vedi anche l'atlante 2016 di Save the children). L'overeducation e il mismatch formazione/lavoro per me sono due falsità e provo a dimostrarlo nel libretto che uscirà in settembre per Einaudi. Dico cose opposte a quelle che dice Raffaele Alberto Ventura, anche se è vero che la linea Goodman Illich è quella che ci permette di avere una visione umanistica simile. Per me il caso italiano è un caso a sé: le riforme Gelmini, Moratti e Giannini sono state il male in terra.

Christian Raimo

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L'overeducation, per me, coesiste con la undereducation. Uno degli effetti della devalorizzazione dei titoli di studio è senz'altro la bassa percentuale di laureati in Italia rispetto alla media dei paesi europei: poiché la laurea risulta meno facilmente spendibile sul mercato del lavoro, in particolare al Sud o nelle zone extra-urbane, una parte della popolazione la considera (correttamente) come un investimento a perdere. Questo dipende sicuramente dalle poche capacità di assorbimento del mercato del lavoro (sfiancato dalla crisi), dai bisogni peculiari di un tessuto di piccole-medie imprese tipicamente italiano (imprese in grado di trasmettere esse stesse le competenze che ritengono necessarie), dai criteri di selezione (talvolta clientelari). Ma dipende anche dall'inflazione provocata sui titoli inferiori (maturità, laurea triennale) dalla corsa ai titoli superiori (laurea magistrale, master, dottorato...) da parte di una minoranza più abbiente. In questo senso a fare scandalo non dovrebbe essere il rapporto tra laureati e popolazione (che vede l'Italia perdente per cause strutturali) ma quello tra lauree magistrali e triennali oppure quello tra dottorati e magistrali, entrambi particolarmente alti, che ci raccontano un'altra storia: quella di una minoranza di studenti italiani che non riescono a smettere di studiare, come prigionieri di una "montagna incantata", perché l'unico modo di dare valore ai loro titoli sembra di accumularne un massimo.

Raffaele Alberto Ventura