la corrispondenza - recensione monstre
«Non si può imitare metodologicamente l'atto creativo […]: si possono imitare solo le forme più semplici». Questa è una delle Note sul problema del Kitsch, evidenziate da Hermann Broch, che riassume in estrema sintesi non soltanto l'ultimo film, ma molta parte dell'opera di Giuseppe Tornatore, sempre rosa dall'ambizione d'affermarsi al pari dei lavori che l'hanno ispirata (il regista, forse convinto d'essere come Pierre Menard raccontato da Borges, ha cercato di compiere quel processo di “transustanziazione”, cioè, d'identificazione totale con i propri autori di riferimento: ha curato, per esempio, il lavoro di montaggio sui materiali inediti – provini, tagli, sequenze alternative – scartati da Fellini per Amarcord; e ha provato ad avverare il sogno irrealizzato di Sergio Leone tentando di girare Leningrad, kolossal monstre sul lungo assedio della città sovietica).
Una tendenza, quella di Tornatore, al “vorrei ma non posso”, che Vincenzo Buccheri indicava come una delle costanti del midcult, il cosiddetto prodotto medio d'autore, che ha tra i sui caratteri primari, stando a quanto sostenuto da Dwight MacDonald che del concetto è stato il teorico, la programmaticità con cui i grandi significati vengono spiattellati al pubblico in stile pompier, cioè falsamente sublime.
Questa caratteristica, che Buccheri riassume nella formula «Esplicitazione Estatica del Banale», è il segno distintivo de La corrispondenza, dove Tornatore, mosso da slancio malickiano, si cimenta a raccontare «l'Amor che move il sole e l'altre stelle». È scomodata la chiusa della Divina Commedia perché il regista declina il proprio il discorso amoroso in stucchevoli metafore astrali in modo da conferire al tema un tono assoluto (ma per quanto cerchi di mascherare, sovraccaricando di riferimenti allegorici e di connotazioni disparate, lo script resta un accumulo ininterrotto di convenzionalità). La liaison extraconiugale tra due astrofisici, costretti oltre che alla clandestinità anche alla distanza (a cui cercano di rimediare sfruttando qualsiasi possibilità di carteggio sentimentale: dai biglietti alle lettere, a tutto ciò che offre l'interconnessione globale), è pretesto per leggere le dinamiche affettive in continuità con le “teorie stellari” (multiuniverso, bosoni, luminosità apparente [ovvero quelle stelle che ancora vediamo ma che da tempo hanno smesso di esistere],...).
Il riferimento a Malick non è suggerito soltanto dalla presenza di Olga Kurylenko, già protagonista di To the Wonder, e da una certa continuità tematica con il film in questione. Tornatore infatti cerca, a tratti, di ricalcare gli effetti di stupefazione visiva tipici del regista di Waco, senza averne però lo sguardo e le risorse. Ma se già nella loro versione originale questi estetismi si espongono (volontariamente) al fraintendimento interpretativo, riproposti e immiseriti perdono di ambiguità e scadono nell'imitazione dell'imitazione, toccando, più volte, punte altissime di ridicolo involontario (come le apparizioni metempsicosiche di cani, falchi e foglie): qui «il Midcult – per dirla con parole di Eco - prende la forma del Kitsch, nella sua accezione più piena, e assume funzione di pura consolazione».
La corrispondenza infatti, con la sua sfilza di momenti da antologia, costruiti su immagini fruste e frasi consumate, ormai irrigiditisi in cliché e adoperati per ottenere una stimolazione programmata del risultato, è un film intrinsecamente consolatorio, che racconta, con modi oleografici e bozzettistici, un mondo «dove la merda - come scrive Kundera - è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse». A Tornatore sembra non importi di scivolare oltre il confine della volgarità grammaticale (senza mai il coraggio dell'eccesso, ovvero quando «il kitsch - come scrive Marco Belpoliti - nella sua versione “bassa”, “maledetta”, “escrementizia” […] si rovescia in qualcos'altro»), e di conferire al tutto un che di fasullo: ciò che conta, alla fine, per lui dev'essere il “bell'effetto”.
Matteo Marelli