il lavoro debilita

Che il lavoro nobiliti l'uomo è una curiosa invenzione moderna (e non a caso la massima è attribuita a Charles Darwin). Nell'antichità e nel medioevo vigeva uno stigma morale e un disprezzo diffuso nei confronti del lavoro, e in particolare di quello subordinato e manuale, considerato prerogativa di servi e schiavi. In fin dei conti l'imperialismo romano non è stato altro che una storia di guerre di conquista finalizzate a ottenere risorse naturali e manodopera schiavile gratuita, così da poter "mantenere quattro gatti a Roma nel lusso più sfrenato" (C.B.).
 
Giacché la maggior parte dei lavori era svolta dagli schiavi, la tipica giornata di lavoro del cittadino romano, stando alle stime degli storici, durava circa 6 ore al giorno (dall'alba a mezzogiorno); ma ancora più sorprendente è la quantità di giorni di vacanza annuali, stimati intorno al numero di 159 durante l'impero di Claudio ( https://www.ethicjobs.com/il-lavoro-nellantica-roma/ ). Un sogno rispetto agli standard odierni. Il cittadino romano, dunque, dedicava solo la mattina al lavoro, concepito come un'attività svilente, come un'occupazione funzionale a rispondere alle esigenze più basse dell'uomo, e il resto della giornata all'otium, ovvero all'attività intellettuale e all'impegno politico, le sole in grado di consentire l'elevazione spirituale dell'individuo.
 
D'altronde la tesi di Aldo Schiavone
( https://books.google.it/books/about/La_storia_spezzata.html?id=fqUiAQAAIAAJ&source=kp_book_description&redir_esc=y ) è che l'economia romana sia crollata proprio perché "drogata" dal continuo ricambio di forza lavoro schiavile, garantito dalle guerre imperialiste, che ha costituito per la società romana un disincentivo all'avanzamento tecnologico e soprattutto all'elaborazione di un'etica del lavoro proto-capitalista, finché non si sono esaurite le possibilità di espansione territoriale e non si è chiuso con esse il rubinetto della manodopera gratuita, arrivando così al collasso economico e alla conseguente dissoluzione dell'impero.
 
Ancora in epoca medievale il lavoro, ben lungi dall'essere considerato un valore, "è una fatica necessaria intrinseca alla condizione umana, che può diventare strumento di purificazione e penitenza", e la differenza tra gli uomini liberi e i lavoratori risiede proprio "nell’assoggettamento di questi ultimi non necessariamente a un signore, quanto al labor stesso, ossia alla fatica che li abbrutisce"; la stessa regola benedettina, sintetizzata dalla nota espressione "Ora et labora", "non poneva attività contemplativa e manuale sullo stesso piano, ma presentava il lavoro come strumento di penitenza e mortificazione che, integrato in una vita ascetica, dedita alla preghiera, potesse stemperare l’orgoglio umano e costituire una forma di ascesi in grado di condurre l’uomo verso la salvezza" ( https://it.pearson.com/aree-disciplinari/storia/cultura-storica/medievale/lavoro-eta-medievale.html ).
 
La moralizzazione del lavoro è un prodotto storico-culturale della modernità, figlio del passaggio da un'economia feudale e agricola, in cui il primato spetta all'aristocrazia, a un'economia prima mercantile (proto-capitalista) e poi industriale e capitalista, trainata dalla borghesia che finisce per tagliare la testa alla nobiltà e soppiantarla, imponendo i propri valori. Tale passaggio storico è garantito dall'etica protestante, base culturale di legittimazione del capitalismo: il denaro da sterco del diavolo si fa segno terreno della grazia divina, e il successo in vita viene a surrogare un aldilà in cui si crede sempre meno, in una sorta di secolarizzazione della vita eterna. L'impostura ideologica del lavoro nobilitante, scaturita dalla modernità capitalista, aveva inoltre lo scopo di celare ai nuovi schiavi della società industriale - gli operai - la propria condizione, appunto, schiavile. E ad alimentare questa narrazione hanno contribuito non solo i liberali, come è ovvio, ma anche gli stessi partiti comunisti e socialisti.
 
Ma oggi, in una fase di tardo capitalismo e a maggior ragione dopo lo choc pandemico, sta perdendo sempre più appeal anche questo simulacro di senso costituito dal lavoro, dallo status, dal posizionamento socio-economico: da cui fenomeni ipercontemporanei che osserviamo con interesse, come quello delle "grandi dimissioni", destinati a dilagare ulteriormente in futuro, specie tra le nuove generazioni. Tutto lascia pensare che la società postmoderna sarà sempre più una società del post-lavoro, nella quale - dopo la parentesi moderna - il lavoro tornerà ad essere considerato fonte di alienazione e immiserimento spirituale, e l'automazione assolverà alla funzione cui in passato hanno assolto servi e schiavi.