genitori gusto gabbia

Il neo più grande del povero è l'impossibilità oggettiva di riconoscere gli insegnamenti guasti che gli vengono impartiti sin da piccolo.
Il genitore in questo ha una responsabilità enorme. La povertà si trasmette a suon di frasi. Quelle frasi che vengono ripetute solennemente e fino allo sfinimento, siliconano il cervello del fanciullo. Ogni frase diventa per lui parte di una griglia attraverso cui vedere il mondo. Il bambino, il ragazzino, l'adulto povero non fanno altro che ripetere le frasi, i commenti, i giudizi dei genitori.
E, una volta cresciuti, le persone di riferimento diventano altre, scelte per caso nel sentiero delle conoscenze.
Quando viene loro richiesto dalla conversazione un'opinione critica, essi ripetono come in trance i giudizi con cui si sono fatti riempire la loro mente. Il povero non fa altro che ripetere giudizi e opinioni di persone per lui autorevoli.

Il gusto altro non è se non il residuo dei giudizi altrui. Il gusto è una poesia di giudizi, ma più spesso un frullataccio di opinioni.

Il povero non confronta, non mette in dubbio ciò che gli è stato detto, lo ripete, e certe frasi gli girano nel cervello fino alla morte.
Sono queste frasi che parlano per lui, prendono il sopravvento, lo coprono di ridicolo, ridono di lui nel momento stesso in cui si fanno pronunciare.

Genitori poveri e coercitivi (le due cose vanno di pari passo) limitano la loro prole perlopiù con concetti confezionati e impacchettati da altri poveri, concetti che non sono mai stati aperti, che sono solamente retorica, che non tengono conto del cambiare dei tempi e delle situazioni. I poveri le chiamano tradizioni.
Non avendo una forte storia di famiglia, il povero se ne inventa una propria, attaccandosi come una piattola e pescando dove può negli insegnamenti paterni e materni.

Tutta la paccottiglia di superstizioni riguardo alla tavola, alla strada, alla casa, diventano dunque tradizioni da seguire, testimonianze di un'antica cultura (contadina e pagana), da tirare fuori soprattutto davanti a chi (e per fortuna) non le conosce, perchè proviene da altri lidi.

La tavola, per ovvi motivi è il primo luogo foriero di superstizioni, ed è paradigma di tutti gli altri riti umani.
L'accanimento sul cibo da non gettare via, come abbiamo già scritto precedentemente, è il primo e il più evidente paradigma di questa retorica della miseria che tanto piace a molti.

Hanno detto che era maleducazione, mancanza di etichetta. Si sono reinventati un' etichetta propria a loro uso e consumo. l'hanno forgiata con il pongo della retorica, e il tornio-giocattolo. Stucchevole come il "buon appetito" e schifosa come il "Mario, piacere".
Noi siamo soliti chiamare retorica tutto ciò che è superfluo, la formula trita e ritrita, lisa e consunta a tal punto da non avere più un valore oggettivo, un'utilità anche minima.
La retorica serve a incantare, invertire di segno, a far apparire giusta, normale, conseguente, necessaria, qualsiasi cosa. La retorica è una branca della matematica. La retorica nasce dalla mancanza di una storia e di tradizioni vere e proprie.
I bambini non conoscono la retorica finché non viene loro insegnata.

Vedo un ragazzo di vent'anni, il quale si accorge neanche troppo inconsciamente di non avere nulla da dire a tavola, e quando cade il sale si prodiga in una serie di sconcezze da zulù, pensando di attirare l'attenzione dei commensali con questi mezzucci, gongolandosi in fondo dell'incidente, così da avere la possibilità di tirare fuori tutto il pattume con il quale le generazioni precedenti lo hanno ammorbato. Mi viene comunque da ridere guardando l'Altro. Il commensale che lo osserva con pena ("povera vittima...") e che a sua volta, per prendere le distanze, per far capire bene a tutti che lui proviene da altri territori sbotta dicendo: "Basta con queste stronzate da contadini". La cosa risibile, la gabbia, è che tutti e due sono su questo mondo per distinguersi. L'uomo è un animale che per distinguersi, vuole distinguersi. Ogni elemento per farlo è buono. Ciò che stucca è l'indugiare, l'indugio. L'indugio è mortifero. L'uomo davvero muore perché indugia con il vivere.