Funerale su Facebook

Ai tempi dei social network la morte è un evento collettivo, una globalizzazione controllata del dolore.
In fin dei conti la meccanica non è troppo diversa da quella di un funerale tradizionale. C'è chi si sforza di fare la faccia contrita, chi è lì più per etichetta che per empatia, chi sente il bisogno di dire qualcosa senza avere nulla di cui parlare, quello che è specializzato in pacche sulle spalle e quello che fuori dalla chiesa prova a sdrammatizzare, chi non lo vedeva da anni ma è subito accorso non appena ha appreso la notizia e chi, nonostante tutto, ti ricorda che all'uscita c'è la cassetta delle offerte. Poi tutti si torna a casa e durante il viaggio in macchina si sta in silenzio fino a quando qualcuno prova a cambiare argomento, avete sentito che, ho saputo di, cosa ne dite se stasera, e così fino a che nel giro di qualche chilometro si torna a ridere, ad alzare un po' il volume della radio, ad organizzare la serata in pizzeria. 
Internet ha solo accelerato i tempi del processo. Le nostre lacrime durano il tempo di un hashtag, 140 caratteri bastano, e spesso avanzano, per il nostro omaggio e non serve nemmeno trovare parole di circostanza perchè una condivisione di quelle scritte da altri è sufficiente.
E poi cosa vuol dire morire per uno come Lou Reed e, più in generale, per quelle che chiamiamo icone. Cosa vuol dire non esserci più. L'umanità ha la sua memoria collettiva a stato solido da cui attingere i ricordi degli altri, quando ne ha voglia e se ne ha voglia. E' un po' come le foto sul comodino con la differenza che le foto sul comodino ingialliscono e prendono la polvere, un link su youtube no. 
Si dice che le ultime parole di Augusto sul letto di morte furono le stesse con cui nel teatro romano si annunciava la fine della rappresentazione: "Acta est fabula, plaudite!", lo spettacolo è finito, applaudite. 
Noi, con molta meno eleganza, ci sentiamo di dire che dopotutto la vita va avanti. Basta premere F5.
Ehi, guarda questo gattino.
 
il pratese hipster